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Ricordi – 10 – LA DONNA CHE VOLA di Moony Witcher

Ho un ricordo nitido della mia infanzia. Anche dei primissimi anni.
Scene, rumori e profumi che ancor oggi mi tengono compagnia.
Dieci brevi racconti che ora dedico a tutti coloro
che nel “Tempo del Coronavirus” possono leggere in pochi minuti.

Ricordi - 10 - LA DONNA CHE VOLA di Moony Witcher - racconto a puntate di Moony WitcherMi ero preparata per quel giorno così speciale chiudendomi per ore dentro l’armadio. Con spago e una manciata di puntine ero riuscita ad attaccare all’interno una torcia a pile che penzolava come un lampadario artigianale. Raggomitolata sul fondo leggevo avidamente i romanzi di Verne e De Amicis ma quello che preferivo era “Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie” di Lewis Carroll. L’avevo letto così tante volte che lo sapevo a memoria. L’anomalo rifugio dell’armadio non fu accettato da mia madre. Non capiva perché mi nascondessi per leggere, gettando sul pavimento gonne e cappotti. L’armadio non era più quel mobile che conteneva vestiti. Ma conteneva solo me e le pagine da leggere.
In effetti era difficile farle capire che avevo bisogno di un luogo stretto e piccolo per poter viaggiare con la mente. Per rinascere standomene china sui libri, una posizione che assomigliava molto ad un feto quando sta dentro la pancia della mamma.
La lettura diventò per me la possibilità di avere un’altra vita. Quella dove l’avventura, la magia e la fantasia aiutavano a superare paure e dolori.
I libri mi davano quella forza che cercavo. Il coraggio di mostrare che non ero così sciocca come diceva la maestra di quinta elementare.
Sì, forse non sapevo risolvere bene i problemi di matematica.
Sì, forse non capivo il senso della geometria. O meglio, comprendevo tutto ma non m’importava dimostrarlo. C’era quell’onda nera che mi travolgeva. Una marea che saliva dentro di me tanto da farmi annegare di lacrime. Erano già trascorsi degli anni dalla morte di mia sorella ma quel dolore si ripeteva ogni giorno e spiegarlo agli adulti era impossibile.
Anche perché, gli adulti, troppo spesso dimenticano di essere stati bambini.
Insomma, dovevo essere forte e superare l’angoscia. Dovevo riempirmi di gioia e meraviglia per affrontare la donna che vola.
I libri sapevano darmi ciò che mancava.
E poi, andare davanti a colei che aveva sfidato il cielo, non era affatto un’occasione banale. Quanti altri bambini avrebbero potuto farlo?
Eccitata a mille avevo guardato la sera prima il telegiornale assieme ai miei genitori, e le immagini di quella signora speciale scorrevano come in un film.
“Domani a pranzo la incontrerai”, disse mio padre gongolandosi sulla poltrona.
E così fu.
M’incamminai con una mano dentro a quella di mio padre e con l’altra stringevo un peluche di giraffa. Ero emozionata in mezzo a tanta gente seduta attorno a lunghi tavoli imbanditi di leccornie e fiori.
Il ristorante dell’Hotel Bonvecchiati, a pochi passi da campo San Luca, era affollatissimo!
Lei, bionda, con la divisa dell’aeronautica sovietica, allargò le braccia e mi venne incontro. Le porsi la giraffa e l’interprete subito le tradusse la timida frase che ero riuscita a dire: “E’ per sua figlia”.
Eh sì, Valentina Tereshkova, bellissima astronauta, prima donna andata nello spazio nel 1963, ora era davanti a me.
Prese la giraffa, sorrise e ringraziò. Poi si chinò e mi baciò sulla guancia destra.
Rimasi a fissarla inebetita. La donna che vola era proprio una persona in carne ed ossa, non un personaggio inventato! Sapere che era salita oltre le nuvole mi procurava una gioia indescrivibile.
Se lei era riuscita a toccare le stelle. Se aveva visto la luna da vicino, allora anch’io potevo farlo. Potevo volare là in alto, nell’infinito e sconosciuto universo. Volare lontano dai dolori e dalla realtà che non mi apparteneva. Sono sicura che tutta la fantasia che ora scrivo nei romanzi per bambini viene da là. Dalla mia infanzia di libri letti con voracità, di giochi con le amiche, di solitudini buie e sofferenze che segnano la vita e lasciano profonde cicatrici.
Il volo è difficile per tutti. L’importante è saper spalancare le ali e mai temere di cadere. E’ accettare di crescere e capire la vita, senza però dimenticare di essere stati bambini.
E sempre quel giorno capii anche questo. Al ritorno dal pranzo mio padre non mi tenne più per mano: “Cammina al mio fianco. Ma da sola”.

Ricordi – 9 – BERRETTO VERDE di Moony Witcher

Ho un ricordo nitido della mia infanzia. Anche dei primissimi anni.
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Dieci brevi racconti che ora dedico a tutti coloro
che nel “Tempo del Coronavirus” possono leggere in pochi minuti.

Ricordi - 9 - BERRETTO VERDE - racconto a puntate di Moony WitcherEntrare in Corte Mosto era come approdare in un piccolo paradiso. C’erano tanti gatti che ronfavano in mezzo all’erba.
Appena attraversavo il sottoportico, salivo sulla scala in pietra ed entravo nella dimora di Margot, incredibile artista che con le canzoni e le marionette affascinava il mondo degli adulti e di noi bambini. Suo figlio, Andrea Liberovici, era già un bimbo geniale. Ora compositore e fine musicista. Era non solo divertente stare con lui davanti al pianoforte, perché l’importante era l’atmosfera libera e vivace che si respirava insieme. Ma l’armonia di Corte Mosto aveva tanto altro da regalarmi, e il dono dell’amicizia lo trovavo anche in un’altra casa, quella che spuntava in fondo alla Corte.
In quella casa abitava Fiorenza, la mia cugina preferita. Amare gli animali e la natura erano valori che condividevamo e per questo le ore trascorrevano liete nel giardino con gli alberi da frutto. Ma quando arrivavano i mesi freddi, con il permesso dei rispettivi genitori, c’era un posto dove andavamo con un entusiasmo esplosivo: il Luna Park!
Le giostre occupavano tutta la Riva degli Schiavoni fino ad arrivare al ponte per andare verso l’Arsenale. L’ultima giostra, però, era la più paurosa: quella dei mostri. Con fantasmi e scivoli, ragnatele e vampiri. No, là non ci andavamo! Fiorenza ed io preferivamo l’autoscontro e i dischi volanti. E con i soldini in mano compravamo i gettoni e lo zucchero filato. Ci sentivamo invincibili sopra i dischi volanti e premere il pulsante per sparare colpendo inesorabilmente tutti gli altri era un grande soddisfazione!
Ragazzine birichine che non avevano ancora la minima idea di cos’erano i ragazzi. Ma c’è sempre la prima volta. Un indizio. Un’emozione. E avvenne tra una giostra e l’altra. Ci eravamo accorte che un paio di maschietti ci stavano alle calcagna. Mostravano interesse in un modo assai ridicolo. Ci seguivano tentando qualche goffa confidenza. Un saluto, un sorriso e occhiate minacciose.
La nostra reazione fu di scoppiare in una risata. Correvamo come pazze per seminarli. Ricordo che uno di loro indossava un buffo berretto di lana verde. Era impossibile non notarlo. Lo scambio di battute non troppo amichevoli avvenne durante la sfida sull’autoscontro. Colpi rimbalzanti e giri del volante. Non eravamo bravissime a pilotare, però la vittoria fu nostra! Colpiti ed affondati!
Le insegne colorate delle giostre presero a luccicare, stava calando la sera e l’obbligo perentorio di ritornare a casa per le 6 del pomeriggio non si poteva dimenticare. E allora la corsa verso il vaporetto che ci riportava alla Giudecca diventava una vera gara di velocità.
Salite a bordo io mi girai verso la riva. Riconobbi quello con il berretto verde che se ne stava impettito davanti all’imbarcadero. Alzò un braccio e mosse la mano in un saluto che fu un addio.
Mai più rivisto. Mai seppi il suo nome. Fiorenza continuò a ridere a crepapelle. Quel giro alle giostre ci fece scoprire che stavamo crescendo. Senza più bambole ma con lo specchio che mostrava i primi segni di un’acerba femminilità.

Ricordi – 8 – LA MADONNA di Moony Witcher

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ricordi 8 La Madonna - racconto a puntate di Moony WitcherNon andavo in chiesa. Non avevo una fede religiosa. Non vestivo con la nuvola di velo quando era il tempo delle Comunioni e delle Cresime. Niente coroncina in testa, niente festa.
Insomma, non ero una piccola sposa come tutte le mie amiche che camminavano verso la chiesa del Santissimo Redentore, alla Giudecca, per partecipare al sacro rito.
La madre di mia mamma, nonna Tisana (sì, si chiamava proprio così), ebbe un’idea per allietare quel giorno per me buio e triste. Mi comprò un bellissimo vestito bianco e blu con tanti fiorellini in evidenza. La sottogonna in velo mi gonfiava come un palloncino e così, anch’io, mi sentii un po’ come le altre. Presa per mano andai in famoso ristorante di Rialto per festeggiare la non-festa. Apprezzai molto nonna Tisana e a pranzo mangiai avidamente tutto quello che il cameriere portava. Eppure, nei giorni successivi, rimasi con il dubbio che dentro la chiesa succedesse qualcosa di straordinario. Un segreto che le altre bambine scoprivano ed io, invece, ne rimanevo all’oscuro.
Cosa mai accadeva in quella grande costruzione con i crocifissi e la scalinata che portava al portone della fede?
La curiosità mordeva lo stomaco e con una banale scusa uscii di casa e attraversai tutta la fondamenta delle Zitelle, scalai il ponte e arrivai con il fiatone davanti alla chiesa. Era un pomeriggio assolato e la scalinata era deserta. Con un certo timore varcai il portone e subito mi avvolse un profumo d’incenso. Enorme, potente, maestosa, la chiesa mi accolse nel silenzio. Nessuno stava pregando e le panche di legno erano vuote. Davanti a me solo l’altare. Ai lati tanti quadri di santi con sguardi estatici. M’incamminai lenta e il rumore dei passi rimbombò facendo sentire la mia anomala presenza. Fui attratta da una statua che s’innalzava alla mia destra, poco prima dell’altare. Raffigurava una donna velata e vestita d’azzurro, totalmente illuminata da lunghe candele bianche. Le fiammelle danzavano nell’aria e quell’immagine fu per me un richiamo fortissimo. Era la Madonna, e lo capii perché tante donne e molte mie amiche, avevano una medaglietta d’oro appesa al collo che raffigurava proprio quella donna.
Con una certa apprensione mi posizionai davanti alla statua. Lo sguardo dolce e fisso di quella donna era un po’ inquietante ma anche invitante. In piedi e con le mani dietro la schiena, la osservai per alcuni minuti. Poi, di getto, le parlai: “Se davvero esisti, rispondimi. Muoviti! Solo se lo farai io ti crederò”.
Le lasciai il tempo per vedere se reagiva. Se davvero poteva spiegarmi il mistero della fede. Se era così sbagliato non indossare il vestito da sposa per la Comunione e se era così grave non conoscere le preghiere.
La statua, ovviamente, rimase immobile. Solo le fiammelle delle candele continuarono a danzare. Abbassai gli occhi e pensai che la risposta non arrivava poiché non lo meritavo. Io ero quella diversa. Ero sbagliata. Ero la bambina che stava fuori dalla porta nell’ora di religione. Ero fuori dalla convenzione delle regole, fuori dalla grazia e della compassione.
Me ne andai a testa china, convinta che nella vita avrei dovuto cercare la quiete e la speranza solo dentro di me. Bambina senza velo ma con la forza di correre su un sentiero impervio, unico e reale.

Ricordi – 7 – TUNA E LE FARFALLE di Moony Witcher

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ricordi 7 Tuna e le Farfalle - racconto a puntate di Moony WitcherCapelli corti, tagliati a maschio, nessun profumo e mani forti. La dolcezza era nelle parole e nei gesti. Zia Vittorina era così e in famiglia la chiamavamo Tuna, e non so perché.
In verità non era proprio una zia, mia nonna Maria l’aveva ricevuta in casa quando era solo una ragazza. Una figlia acquisita che negli anni diventò parte fondamentale della famiglia guadagnando l’appartenenza, per questo era per tutti noi una “zia”.
La casa di nonna Maria era a pianoterra, in Campo Marte, a pochi metri abitava Tuna con la vecchia “Peri”, sua madre.
Ho un’immagine fissa della vecchia Peri, sempre vestita di nero tabaccava tirando col naso e se ne stava seduta accanto alla finestra della cucina. Il suo panorama, per anni e anni, fu sempre lo stesso: il campiello colmo di pietre e fango. All’epoca molte fogne erano a cielo aperto e l’erba cresceva ai lati dei condomini. Non vi erano fiori e nemmeno aiuole. Eppure noi bambini giocavamo a perdifiato, perché l’infanzia si adagia e cresce anche nel nulla. Quel nulla, che per noi, era tutto. Le urla delle mamme che si affacciavano ai balconi si alternavano in un ritmo armonico. Tutte chiamavano i propri figli, li sgridavano, li ammonivano con frasi irripetibili. Le grida erano come musica e la vivacità delle parole sottolineavano la genuinità di un’educazione antica.
Ero contenta di stare a casa di nonna, mia madre e mio padre lavoravano nell’osteria di nonno Gigio e dunque i pomeriggi li trascorrevo con Tuna. Lei sapeva a malapena leggere e scrivere, eppure aveva il pregio di stimolare la mia fantasia.
Sui quaderni di scuola mi faceva disegnare piccole farfalle. Un disegno semplice, fatto con un banale trucco. Bastava un pezzetto di colore a cera premuto e girato sul foglio per far nascere ali variopinte.
Mi piaceva tanto avere pagine che potevano colorare le giornate.
Farfalle che volavano dentro la mia mente di bambina irrequieta.
L’inverno passava nel calore del cibo cotto che Tuna preparava con pazienza. Il lungo tavolo di marmo era sempre apparecchiato per chi passava da casa e mangiava senza porsi il problema dell’orario. Pranzi e cene fugaci e io mi nutrivo di farfalle imprigionate sui quaderni. No, non mangiavo molto e la magrezza era talmente evidente che amici e famigliari iniziarono a chiamarmi “due etti”. Due etti di occhi grandi e un vuoto enorme nel cuore. La morte di mia sorella riempiva la voragine e non c’era cibo che potesse sostituire il dolore.
Superare, crescere, capire, accettare. Sì, lo dovetti fare. Non c’erano alternative alla morte. E così le farfalle di Tuna portavano il sorriso in quella casa dove il via vai di cugini era continuo.
La merenda arrivava come i coriandoli a Carnevale, ed era uguale o quasi per tutti i bambini di Campo Marte: pane e zucchero, pane e olio o talvolta un frutto.
Ammetto che nonno Gigio aveva una preferenza per me, con la sigaretta in bocca e lo sguardo furbo metteva la mano in tasca e mi dava un soldino. Lo spendevo subito correndo alla baracchina verde, quella della “Lidia dei dolci” e dietro il banco spuntava Marina, ragazza bionda, con le guance rosse che accoglieva bimbi golosi con uno sguardo azzurro, come il cielo.
C’erano caramelle profumate, bottigliette di liquidi aromatici da bere in un attimo, strisce di liquirizia e bon-bon di ogni gusto.
Colori e profumi che si sommavano agli arcobaleni delle farfalle che rimanevano sulla carta e nel mio cuore.

Ricordi – 6 – LA SCUOLA E LA STRADA di Moony Witcher

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ricordi 6 La Scuola e la Strada - racconto a puntate di Moony WitcherHo frequentato la scuola elementare “Carlo Goldoni”, magnifica villa della Giudecca affacciata sulla laguna. Là ho imparato le tabelline e l’alfabeto. Le aule non erano semplici aule ma vere e proprie stanze con travi a vista, pavimenti con mosaici preziosi e in quella del prima elementare c’era persino il caminetto! Ma senza fuoco! Le maestre erano rigorose, alcune affettuose e altre altere. In ogni caso, ognuna di noi alunne aveva il suo mondo da raccontare e gli scherzi da fare. Sui banchi s’intervallavano pianti e risate, brutti voti e 10 e lode che marchiavano i quaderni e le pagine con le “orecchie”. Voti che poi venivano commentati dai genitori, non sempre clementi. E così io cercavo di farcela tentando di non cadere in troppi errori. Volevo capire perché quando il prete entrava, io dovevo uscire fuori dalla porta e stare con la bidella. Ero l’unica bambina della scuola esonerata dall’ora di religione e per questo abbandonavo l’aula. Negli Anni Sessanta gli atei erano considerati il diavolo! Ed io, ero il demonio? A 6 anni era una domanda alla quale non sapevo proprio rispondere. Il dubbio mi creò non pochi disagi interiori. E mi arrovellavo anche quando vedevo il gruppetto di orfani accompagnati dalle suore che fungevano da mamme. I bambini senza genitori indossavano tutti lo stesso cappotto di colore grigio. Grigio come lo sguardo che mostravano.
Ma nel grande parco della scuola, quando sbocciava la primavera, era lecito correre e giocare tutti insieme durante l’ora di ricreazione. La fontana non zampillava mai. Io, la immaginavo viva, con l’acqua fluente che bagnava mani e viso. I sogni di come poteva essere la realtà che non mi piaceva iniziarono a farsi sempre più frequenti. E non ci volle molto perché i pensieri diventassero frasi o disegni. Non mostravo a nessuno ciò che componevo. Ne avevo vergogna.
Però la vivacità che esplodeva dentro il mio cuore la condividevo con le mie compagne di classe e con tante altre amiche.
La strada diventava la scuola più importante, perché ti avviava alla cura dei sentimenti e delle sfide da superare per forgiare il carattere.
E così con Donata, Rossana, Manuela, Daniela mi scatenavo in giochi divertenti e molto semplici che oggi non si fanno più.
Insomma, i pomeriggi scorrevano come il vento. Giocare a Nascondino e ai Quattro Cantoni, era il modo per stringere amicizie che sempre più diventavano forti e solide. I dispetti si univano alle piccole vendette, ma bastava una pietra per giocare al Campanon…e tutto passava.
Le confidenze, i primi “amori” infantili. Pettegolezzi e delusioni. Emozioni che duravano poco anche se erano potenti e fulminee.
Chi aveva fratelli e sorelle poteva contare sempre in una compagnia durante le ore in casa, io ero figlia unica e allora le mie “sorelle “erano le bambine del palazzo dove abitavo. Le rispettive mamme si affacciavano alle finestre per stendere le lenzuola e le chiacchiere si perdevano in quel cielo azzurro che brillava più dei loro occhi giovani. La madre di Susanna si complimentava con la mia quando cucinava il pesce, e le risate si sentivano fin oltre le case. Mentre la mamma di Rossana, vedendo che ero sola senza sorelle, mi chiamava per andare a mangiare la bistecca da lei, assieme a sua figlia. Era la bistecca più buona del mondo!
E le abbuffate di felicità e cibo erano d’obbligo alle Feste dell’Unità. Con le sorelle Mara e Barbara mi sono divertita così tanto a cantare e a correre che potrei sentire ancora adesso la gola bruciare e i polpacci dolere. E il pane? Sì, il pane di Gilmo (mi pare si chiamasse così) era fantastico, soprattuto i “montasù”. E la “Lilli del latte”, donna dai modi gentili, era sempre pronta a porgere la bottiglia con quel buon liquido bianco fresco e sano. Peccato che il banco del negozio fosse un po’ troppo alto per me, piuttosto bassa di statura. Infatti, per arrivarci mi sforzai talmente tanto che alla fine sbattei la bocca e mezzo dente saltò per aria. Il mio sorriso cambiò in un istante trasformandosi in un pianto inevitabile. Ricordo perfettamente che per consolarmi l’amica Adriana mi portò dalla “Moretta”, donna con in testa uno chignon acconciato con le forcine, che mi abbracciò fortissimo: “Ti se bea anca col dente rotto”.
Una frase, tanto affetto e le lacrime terminarono.
Ricordo. Ricordo tutto. Anche i silenzi e gli sguardi sinceri dei giudecchini.

Ricordi – 5 – I FUNGHI E IL CERBIATTO di Moony Witcher

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Ricordi 5 I funghi e il cerbiatto - racconto a puntate di Moony WitcherStivali, giacca a vento e un cestino in vimini. Nei boschi l’odore di muschio entrava nelle narici come ossigeno puro. Camminare per ore nei boschi di quella che ora è l’ex Jugoslavia era naturale. La fatica di alzarsi all’alba era compensata dalla freschezza della rugiada che bagnava il viso. Salire, scalare, imprimere le proprie orme sui sentieri impervi era conquistare quella libertà che ti permetteva di urlare e sentire di ritorno l’eco della voce. Foglie gialle e marroni, rosse e verdi erano il tappeto sul quale chinarsi per scovare tra i cespugli funghi enormi. Mio padre avanzava spedito schivando arbusti e roveri, l’incitazione di proseguire era un ordine perentorio. Arrivare là in alto e ancora più in alto per conquistare il panorama che mozzava il fiato. Noi bambini avevamo le guance rosse per lo sforzo ma la gioia di riempire i cestini di finferli e porcini, russole e mazze di tamburo era talmente tanta da farci dimenticare sete e fame.
Bastoni d’accompagno ricavati dai rami caduti, mani nude e occhi puntati come laser per scovare funghi sempre più grandi. La sfida continuava senza sosta. E così le urla entusiastiche si spargevano con il vento più di quelle che facevamo durante i giochi alla Giudecca. Pierangelo Federici e Davide Federici, fratelli di tempra e carattere aperto, avevano in saccoccia porcini dalle dimensioni spropositate. Io li seguivo, speranzosa di trovarne almeno uno, seppur piccolo e malandato. In realtà la ricerca dei funghi non era per me la priorità. Amavo osservare i raggi del sole che s’intrufolavano tra gli alberi, mi piaceva odorare l’erba e accarezzare pietre e sassi di remota era geologica. Striature che mostravano il tempo passato.
I due fratelli avevano nelle gambe quell’energia che solo i “civapcici” potevano dare. Polpettine di carne che in Croazia e in Slovenia si gustavano in ogni trattoria. Noi bambini eravamo davvero affamati quando tornavamo dalla spedizione e i nostri genitori lo sapevano. Le vacanze d’estate spesso univano la mia famiglia a quella dei fratelli Federici. Il loro padre, Momi, aveva sempre una parola gentile. Politico impegnato e grande oratore, abbracciava sua moglie, Lia Finzi, con quell’amore che ricordo come integro e grande. Lia era ,ed è, una donna di raro spessore umano. Lo sguardo e il sorriso sapevano accogliere qualsiasi dolore. Sofferenza e gioia. Io l’adoravo. L’adoro tutt’oggi e non solo per la sua storia politica e d’impegno sociale ma per una ragione intima straziante. Lia fu il nome dato anche a quella sorella che non ho mai conosciuto. Una vita che si è spenta al primo vagito.
Non bastavano le risate e i giochi per attenuare la spaccatura del mio cuore e l’enorme angoscia scavò un vuoto carsico. Anche nell’età dell’infanzia i dolori rompono i pensieri e restano nel profondo che s’inoltra nel buio della morte. Non c’erano alternative per uscire dal guscio sofferente e solo la mano eterna della Natura mi aiutò a risalire. Accadde in un giorno di vacanza a Logarska Dolina. Successe qualcosa che quietò l’ansia e lo sgomento. Sì, avvenne proprio lontano dalla casa dall’Italia e dalla casa della Giudecca.
La ricerca dei funghi e le lunghe passeggiate erano oramai una consuetudine ma quel giorno eravamo solo io e mio padre. Ci eravamo alzati che era ancora buio e arrivati nel bosco lui s’inoltrò a passo veloce, io rimasi indietro. Stanca e ancora assonnata, approfittai di un grosso tronco addormentato in mezzo al sentiero. Mi sedetti e il silenzio fu rotto da uno strano rumore. Dietro ad un grande cespuglio notai un certo movimento sospetto. Poi, d’improvviso, spuntarono due orecchie e un muso. Era un cerbiatto! Un cucciolo meraviglioso che ruminava tranquillo. Per qualche secondo rimasi immobile ma la felicità di trovarmi a pochi metri da quella meraviglia agitò gambe e piedi. Il cerbiatto bloccò la masticazione e girò il muso verso di me. Gli occhi, grandi e profondi, mi fissarono.
Restammo a guardarci e quegli occhi riempirono i miei del nutrimento di cui avevo bisogno. Un cibo immateriale che è come l’amore. Il suo era uno sguardo colmo di sorpresa. Di vita giovane e selvaggia. La fragilità di quel momento si sommò alla bellezza dell’esistenza di ogni miracolo della natura.
Un pensiero mi attraversò come una lama: quel cucciolo inerme poteva sparire dal mondo per qualsiasi imprevisto. Ucciso dal cacciatore di turno, una scivolata in uno strapiombo o una malattia. I suoi grandi occhi si sarebbero chiusi per sempre. Così come accadde a mia sorella, la cucciola che la mia famiglia aveva atteso per nove mesi.
Con la bocca aperta fermai il respiro. Sentii come se una doccia improvvisa mi lavasse dal dolore.
Il cerbiatto mosse le orecchie e avanzò timidamente. Mi alzai per accarezzarlo, però la mossa non fu felice. Il piccolo corse via.

Ricordi – 4 – COLORI E MUSICA di Moony Witcher

Ho un ricordo nitido della mia infanzia. Anche dei primissimi anni.
Scene, rumori e profumi che ancor oggi mi tengono compagnia.
Dieci brevi racconti che ora dedico a tutti coloro
che nel “Tempo del Coronavirus” possono leggere in pochi minuti.

Non potevo entrare là. Solo personaggi di alto rango avevano l’onore di varcare la soglia. Il portone del Palazzo Tre Oci era sempre chiuso ma non mi arrendevo. Quella dimora affacciata sul canale della Giudecca era a pochi passi da casa mia, e questo mi spingeva a raggiungerla con comodità. Sapevo che il vecchio, con le braccia grosse e la camicia arrotolata fin sopra i gomiti, mi aspettava. Potevo tentare l’arrembaggio solo di pomeriggio, infatti uscivo da casa verso le quattro con la scusa di andare a giocare in Campo Marte con gli altri bambini. Alla mamma raccontavo una bugia che ancor oggi non mi pento di averle detto.
Ero rimasta troppo colpita da quel vecchio che profumava di colori e la sua casuale conoscenza mi permise di frequentarlo in modo fugace.
Presa dal desiderio di vedere le sue opere, percorrevo la fondamenta delle Zitelle a passo veloce e invece di entrare nella calle “del vento” per raggiungere le amiche, andavo dritta con la speranza di trovare aperto quel benedetto portone. E quando lo spiraglio c’era, i miei occhi si riempivano di arcobaleno. Salivo le larghe scale di marmo ed infine bussavo timidamente alla porta di Gregorio Sciltian, notissimo pittore di origine armena che parlava poco e bofonchiava davanti a numerose tele che attendevano il suo estro. Che fosse un artista conosciuto nel mondo lo ignoravo, per me era il vecchio che sapeva dipingere. Un signore di buona stazza e con il carattere un po’ burbero. Burbero con gli altri, non certo con me!
Avevo sempre una storia da raccontargli, una vicenda che riguardava la scuola, i compiti e anche cosa avevo sognato. Lui mi ascoltava distratto mentre sceglieva tra mille tavolozze i pennelli da usare. Il suo sguardo era acuto e quando mi dava le spalle concentrandosi sul suo dipinto, mi zittivo. La miscellanea di tinte che raccoglieva come fiori di campo era per me un’alchimia miracolosa. La tela prendeva vita e la luce proveniente dall’enorme finestra neogotica rifletteva lo splendore che soltanto il cielo di Venezia poteva donare.
Bastava una sua distrazione o la necessità di andare in cucina, e le tele rimanevano incustodite, davanti a me.
Non resistevo. Non ci riuscivo. Afferravo i tubetti dei colori e li strizzavo al punto che il bianco si univa al rosso, il verde macchiava il giallo e la tavolozza si riempiva di piccoli laghi densi di sfumature inconsuete. Pensavo ingenuamente di aver composto nuove tinte per il vecchio pittore. Non avrei mai osato imbrattare le sue tele ma spremere i tubetti sì. Quei nuovi colori macchiati sarebbero stati la scelta che avrebbe fatto per le sue opere.
Appena sentivo i suoi passi, indietreggiavo, mettevo le mani dietro la schiena, erano sporche del guaio che avevo combinato.
Sciltian si sedeva sul suo largo sgabello e riprendeva il pennello. Emetteva strani rumori, si girava a guardarmi senza dire una parola. So per certo che si accorgeva del mio pasticcio. La tavolozza con i colori confusi rimaneva là, accanto a lui che continuava a dipingere come se io non ci fossi.
Me ne andavo felice chiudendo la porta e salutandolo con un semplice “Ciao pittore”.
E se i colori stavano diventando una delle passioni più forti, anche la musica iniziò a prendermi la mente. La scuola di danza classica del Teatro la Fenice mi aveva forgiato i piedi ma anche l’anima. Stare sulle punte era doloroso ma la musica classica guariva ogni ferita. Ciajkovskij prese il mio cuore. E ancor oggi è suo. La musica parla oltre la realtà. Ti porta lontano, dentro e fuori di te. Ti fa viaggiare come le parole che ancora non sono espresse.
La fortuna di essere nata in una città dove l’arte è madre, mi ha portato a incontrare persone e personaggi unici al mondo. E così la mia famiglia incrociò quella di un uomo grande, timido e forte.
Così me lo ricordo. Luigi Nono, compositore e politicamente impegnato, antifascista come mio padre, aveva il raro dono della sincera simpatia. Sposato con Nuria, figlia dell’altrettanto famoso compositore austriaco Arnold Schonberg, era solito passeggiare sulla riga di marmo bianco della fondamenta. Proprio a filo d’acqua. Solitario se ne andava camminando e pensando. Ho un ricordo nitido e dolcissimo: la sua figura che ondeggia cercando qualcosa che solo lui poteva immaginare. Ero molto contenta quando andavo a casa sua, a una fermata di vaporetto dalla mia. Era una casa bellissima dove l’ordine delle cose era perfettamente intonato alle risate delle sue figlie: Silvia Nono e Serena Nono. Mie coetanee. Amiche da subito. Bambine libere e accoglienti che amavano gli animali. Ma quando il loro padre era chiuso nella stanza magica e stava studiando, scrivendo e componendo, non si poteva creare disturbo.
Capii che la musica ha bisogno di silenzio per nascere.