Ho un ricordo nitido della mia infanzia. Anche dei primissimi anni.
Scene, rumori e profumi che ancor oggi mi tengono compagnia.
Dieci brevi racconti che ora dedico a tutti coloro
che nel “Tempo del Coronavirus” possono leggere in pochi minuti.
Mi ero preparata per quel giorno così speciale chiudendomi per ore dentro l’armadio. Con spago e una manciata di puntine ero riuscita ad attaccare all’interno una torcia a pile che penzolava come un lampadario artigianale. Raggomitolata sul fondo leggevo avidamente i romanzi di Verne e De Amicis ma quello che preferivo era “Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie” di Lewis Carroll. L’avevo letto così tante volte che lo sapevo a memoria. L’anomalo rifugio dell’armadio non fu accettato da mia madre. Non capiva perché mi nascondessi per leggere, gettando sul pavimento gonne e cappotti. L’armadio non era più quel mobile che conteneva vestiti. Ma conteneva solo me e le pagine da leggere.
In effetti era difficile farle capire che avevo bisogno di un luogo stretto e piccolo per poter viaggiare con la mente. Per rinascere standomene china sui libri, una posizione che assomigliava molto ad un feto quando sta dentro la pancia della mamma.
La lettura diventò per me la possibilità di avere un’altra vita. Quella dove l’avventura, la magia e la fantasia aiutavano a superare paure e dolori.
I libri mi davano quella forza che cercavo. Il coraggio di mostrare che non ero così sciocca come diceva la maestra di quinta elementare.
Sì, forse non sapevo risolvere bene i problemi di matematica.
Sì, forse non capivo il senso della geometria. O meglio, comprendevo tutto ma non m’importava dimostrarlo. C’era quell’onda nera che mi travolgeva. Una marea che saliva dentro di me tanto da farmi annegare di lacrime. Erano già trascorsi degli anni dalla morte di mia sorella ma quel dolore si ripeteva ogni giorno e spiegarlo agli adulti era impossibile.
Anche perché, gli adulti, troppo spesso dimenticano di essere stati bambini.
Insomma, dovevo essere forte e superare l’angoscia. Dovevo riempirmi di gioia e meraviglia per affrontare la donna che vola.
I libri sapevano darmi ciò che mancava.
E poi, andare davanti a colei che aveva sfidato il cielo, non era affatto un’occasione banale. Quanti altri bambini avrebbero potuto farlo?
Eccitata a mille avevo guardato la sera prima il telegiornale assieme ai miei genitori, e le immagini di quella signora speciale scorrevano come in un film.
“Domani a pranzo la incontrerai”, disse mio padre gongolandosi sulla poltrona.
E così fu.
M’incamminai con una mano dentro a quella di mio padre e con l’altra stringevo un peluche di giraffa. Ero emozionata in mezzo a tanta gente seduta attorno a lunghi tavoli imbanditi di leccornie e fiori.
Il ristorante dell’Hotel Bonvecchiati, a pochi passi da campo San Luca, era affollatissimo!
Lei, bionda, con la divisa dell’aeronautica sovietica, allargò le braccia e mi venne incontro. Le porsi la giraffa e l’interprete subito le tradusse la timida frase che ero riuscita a dire: “E’ per sua figlia”.
Eh sì, Valentina Tereshkova, bellissima astronauta, prima donna andata nello spazio nel 1963, ora era davanti a me.
Prese la giraffa, sorrise e ringraziò. Poi si chinò e mi baciò sulla guancia destra.
Rimasi a fissarla inebetita. La donna che vola era proprio una persona in carne ed ossa, non un personaggio inventato! Sapere che era salita oltre le nuvole mi procurava una gioia indescrivibile.
Se lei era riuscita a toccare le stelle. Se aveva visto la luna da vicino, allora anch’io potevo farlo. Potevo volare là in alto, nell’infinito e sconosciuto universo. Volare lontano dai dolori e dalla realtà che non mi apparteneva. Sono sicura che tutta la fantasia che ora scrivo nei romanzi per bambini viene da là. Dalla mia infanzia di libri letti con voracità, di giochi con le amiche, di solitudini buie e sofferenze che segnano la vita e lasciano profonde cicatrici.
Il volo è difficile per tutti. L’importante è saper spalancare le ali e mai temere di cadere. E’ accettare di crescere e capire la vita, senza però dimenticare di essere stati bambini.
E sempre quel giorno capii anche questo. Al ritorno dal pranzo mio padre non mi tenne più per mano: “Cammina al mio fianco. Ma da sola”.

Entrare in Corte Mosto era come approdare in un piccolo paradiso. C’erano tanti gatti che ronfavano in mezzo all’erba.
Non andavo in chiesa. Non avevo una fede religiosa. Non vestivo con la nuvola di velo quando era il tempo delle Comunioni e delle Cresime. Niente coroncina in testa, niente festa.
Capelli corti, tagliati a maschio, nessun profumo e mani forti. La dolcezza era nelle parole e nei gesti. Zia Vittorina era così e in famiglia la chiamavamo Tuna, e non so perché.
Ho frequentato la scuola elementare “Carlo Goldoni”, magnifica villa della Giudecca affacciata sulla laguna. Là ho imparato le tabelline e l’alfabeto. Le aule non erano semplici aule ma vere e proprie stanze con travi a vista, pavimenti con mosaici preziosi e in quella del prima elementare c’era persino il caminetto! Ma senza fuoco! Le maestre erano rigorose, alcune affettuose e altre altere. In ogni caso, ognuna di noi alunne aveva il suo mondo da raccontare e gli scherzi da fare. Sui banchi s’intervallavano pianti e risate, brutti voti e 10 e lode che marchiavano i quaderni e le pagine con le “orecchie”. Voti che poi venivano commentati dai genitori, non sempre clementi. E così io cercavo di farcela tentando di non cadere in troppi errori. Volevo capire perché quando il prete entrava, io dovevo uscire fuori dalla porta e stare con la bidella. Ero l’unica bambina della scuola esonerata dall’ora di religione e per questo abbandonavo l’aula. Negli Anni Sessanta gli atei erano considerati il diavolo! Ed io, ero il demonio? A 6 anni era una domanda alla quale non sapevo proprio rispondere. Il dubbio mi creò non pochi disagi interiori. E mi arrovellavo anche quando vedevo il gruppetto di orfani accompagnati dalle suore che fungevano da mamme. I bambini senza genitori indossavano tutti lo stesso cappotto di colore grigio. Grigio come lo sguardo che mostravano.
Stivali, giacca a vento e un cestino in vimini. Nei boschi l’odore di muschio entrava nelle narici come ossigeno puro. Camminare per ore nei boschi di quella che ora è l’ex Jugoslavia era naturale. La fatica di alzarsi all’alba era compensata dalla freschezza della rugiada che bagnava il viso. Salire, scalare, imprimere le proprie orme sui sentieri impervi era conquistare quella libertà che ti permetteva di urlare e sentire di ritorno l’eco della voce. Foglie gialle e marroni, rosse e verdi erano il tappeto sul quale chinarsi per scovare tra i cespugli funghi enormi. Mio padre avanzava spedito schivando arbusti e roveri, l’incitazione di proseguire era un ordine perentorio. Arrivare là in alto e ancora più in alto per conquistare il panorama che mozzava il fiato. Noi bambini avevamo le guance rosse per lo sforzo ma la gioia di riempire i cestini di finferli e porcini, russole e mazze di tamburo era talmente tanta da farci dimenticare sete e fame.
Non potevo entrare là. Solo personaggi di alto rango avevano l’onore di varcare la soglia. Il portone del Palazzo Tre Oci era sempre chiuso ma non mi arrendevo. Quella dimora affacciata sul canale della Giudecca era a pochi passi da casa mia, e questo mi spingeva a raggiungerla con comodità. Sapevo che il vecchio, con le braccia grosse e la camicia arrotolata fin sopra i gomiti, mi aspettava. Potevo tentare l’arrembaggio solo di pomeriggio, infatti uscivo da casa verso le quattro con la scusa di andare a giocare in Campo Marte con gli altri bambini. Alla mamma raccontavo una bugia che ancor oggi non mi pento di averle detto.