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La casa dei misteri di Elisa Consiglio (corso di scrittura online Bambini – Primo Livello)

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La casa dei misteri
di Elisa Consiglio
Corso di scrittura – Bambini – Primo Livello

Perfetto.
In ritardo.
Il primo giorno di scuola.
In terza media.
In una scuola nuova.
Miseriaccia.
Sistemai il colletto della camicia a fiori e mi pettinai i capelli come potevo.
Presi un bel respiro.
Bussai, sperando di sentire “avanti” nè troppo presto né troppo tardi, tendendo l’orecchio.
Le risate e il chiacchiericcio al di là della porta si placano.
Una voce severa risponde.
Abbassai la maniglia e…che accidenti di espressione facciale faccio adesso?
Sorrido? Faccio la seria? Formale? Sciolta? Troppo tardi.
Quella porta cigolava. E c’era silenzio.
Perdincibacco.
Je suis … dans …la mérde. Sì, imprecare mentalmente in francese è decisamente più liberatorio che farlo in italiano.
“Scusi il ritardo” dissi con voce un po’ impacciata ad una giovane professoressa bionda” Ma in segreteria hanno avuto qualche problema nel dirmi dov’è la classe e…”deglutì” sono la nuova alunna, Annalisa Rossi.”
“Buongiorno” diamine, mi ero dimenticata di dirlo!
“Sono la professoressa De Santis, insegno italiano e storia” mi accennò un sorriso” Puoi andare a sederti lì”
Mi indicò l’ultimo banco della fila centrale, dov’era seduto un ragazzo di media altezza, piuttosto minuto, i capelli castani spettinati e gli occhi grigi sorridenti.
Avanzai velocemente verso il mio nuovo posto, ringraziando mentalmente il cielo per non avere il trolley, che mi avrebbe dato fin troppe difficoltà a districarmi nel labirinto delle cartelle.
Feci scivolare rapidamente lo zaino dalle spalle prima di sedermi, le spalle un po’ rigide. Dovrei rilassarmi, salutare, sorridere…
“Ciao” mi voltai verso il mio compagno di banco, che mi guardava sorridendo mentre mi porgeva la mano sinistra. Era mancino?
“Sono Luca…tu sei Annalisa , giusto?”
“Giusto, ma preferisco se mi chiamano Lisa” risposi stringendogli la mano.
“La De Santis non è male” iniziò “ma i suoi discorsi di inizio anno scolastici sono qualcosa di veramente infinito.”
Era un chiacchierone, si capiva dalla disinvoltura nello sporgersi leggermente verso di me, mentre cercava riparo dietro la schiena di un tipo piuttosto alto. Dovevo decidere se quello era un bene o un male.
“Comunque…tra tre ore saremo fuori da qui, ma credo che inizierò a farti domande ora che aspettiamo i ritardatari. E dire che è il primo giorno” scosse la testa “Da dove vieni?”
“Frascati, vicino Roma” risposi “Tu hai sempre vissuto qui?”
“A Chiara Valle? Sì e conosco praticamente tutti. Ti è andata bene, dato che potrei presentarti tutta la scuola e mezzo paese” mi fece l’occhiolino “e dove abiti di preciso?”
“Nella villa sulla collina, hai presente?”
“Certo che ho presente. È la casa dei misteri.” Il suo tono si era fatto cupo, come quando si tenta di fare una voce cavernosa per raccontare una storia dell’orrore.
Corrugai la fronte :”La casa dei misteri?”
Il ragazzo annuì, l’aria grave:”Si dice che la casa si mantenga in condizioni perfette mentre le famiglie che la abitano incontrano la loro fine con morti tragiche e tormentate” sussurrò.
Okay. Ero sinceramente perplessa.
La professoressa richiamò la classe all’ordine. Evidentemente erano arrivati tutti.
“Bene ragazzi” iniziò la giovane donna “Potreste farmi i nomi di alcuni autori che andremo a studiare quest’anno?”
Silenzio totale. Non sapevo se alzare o meno la mano…
“Molto bene” evidentemente la De Santis non era una che si faceva scoraggiare facilmente “Sapete dirmi quale scrittore italiano, di origini veneziane, visse durante il periodo napoleonico e si arruolò nell’esercito francese?”
Alzai la mano di scatto. Foscolo.
La professoressa fece rispondere un’altra ragazza, una biondina con una voce acuta.
E poi ancora domande su Manzoni, qualcuna su Machiavelli, che evidentemente non avevano studiato lì, e su mezzo libro di letteratura, la mia mano alzata apparentemente ignorata.
Poi “Quest’anno parteciperemo ad un progetto. Studieremo i grandi della letteratura mondiale” gli occhi della professoressa si illuminarono “Vediamo se ne conoscete qualcuno. È morto a Parigi a novembre del 1900…” Pausa di silenzio “…nato a Dublino…”
Il mio braccio era tesissimo. Ed era l’unico.
“Oscar Wilde” mi limitai a rispondere ad un cenno dell’insegnante.
“Due opere che ha scritto” domandò quella con voce incolore.
“Il fantasma di Canterville…” iniziai con tono vago “Il ritratto di Dorian Gray…”
“Okay. È francese e ha scritto due libri ricchi di pantagruelismo…”
Stava iniziando a farmi seriamente male il braccio.
“François Rabelais”
“James Joyce”
“Jane Austen”
“Complemento di pena”
“Wow!” Sussurrò Luca mentre la prof scriveva un’altra frase da analizzare alla lavagna “abbiamo una secchiona qui!”
Sorrisi.
“Mi spiace solo” continuò lui sempre a bassa voce “che la prof faccia un po’ di favoritismi”
Arricciai il naso, chiaramente contrariata “Cosa mi dicevi prima della casa?” chiesi per cambiare discorso.
“Ah già! È stata costruita alla fine del 1600, ma inizialmente era solo una residenza estiva o qualcosa del genere…” Questo lo sapevo già, pensai “ma una famiglia nobile ci si è trasferita durante la rivoluzione francese…probabilmente avevano paura di finire tutti quanti ghigliottinati. Da allora sono iniziate le tragedie.”
“Ragazzi” la professoressa batté le mani un paio di volte “sto cercando di prepararvi per il test di ingresso!”
Passò un minuto scarso “Alcuni parenti raggiunsero i nobili che si erano trasferiti, e nel corso degli anni si sono stabiliti in pianta stabile. Alcuni si sono buttati dal terzo piano, qualcun altro è stato avvelenato, ma i più si dice che siano morti in seguito ad una forte depressione. Alla fine del 1800 se n’è andato il proprietario, mentre dei suoi parenti se ne sono andati dopo circa tre anni, con un figlio morto misteriosamente e urlando che nella casa c’erano spiriti maligni che li perseguitavano, uscendo dagli specchi e tentando di farli cadere dalle scale”
“Morto misteriosamente?” Chiesi. Probabilmente era uno scherzo, meglio svelarlo subito.
“Si dice che una mattina l’hanno trovato morto seduto sulla poltrona nella stanza dove era solito leggere…quella soffitta, hai presente? Bene, l’hanno trovato seduto in poltrona, bianco come la neve, gli occhi chiusi. Sembrava dormisse. Poi la madre si avvicinò per fargli una carezza e si accorse che non respirava. Chiamò il marito inorridita e il medico non seppe dar loro spiegazioni sul decesso. Sembrava che avesse semplicemente smesso di respirare. Lo seppellirono nella cappella dei loro parenti, poi se ne andarono e nessuno li vide più. Da allora la casa è abbandonata, ma si dice che a volte si sentano grida di dolore e lamenti struggenti. Poi…beh qualcuno ha provato a trasferirsi, mi ha raccontato mio nonno, era facile dato il prezzo piuttosto basso, ma nessuno è durato più di anno. C’era una ragazza, una bella bruna con gli occhi verdi, una volta mi ha detto, con un’aria seria come quella della Madonna nel ritratto che c’è in chiesa, sue testuali parole, te l’assicuro, che dopo due mesi è scesa in paese in piena notte urlando e strappandosi i capelli. L’hanno ricoverata in un ospedale psichiatrico e sembra che non ne sia più uscita. Tutti i più superstiziosi qui in paese vedono nella mancata decadenza della villa la conferma che ci sia una maledizione. Come un morbo, che invece di rovinare quelle vecchie mura divora la serenità e prosciuga l’energia vitale dei suoi abitanti.” Sorrise “Ma ovviamente sono solo leggende. Spero che vi troviate bene, tu e la tua famiglia, quanti hai detto che siete? Quattro?” Tirò a indovinare.
“Cinque” risposi con un sorriso nervoso.

Il racconto prosegue, cliccate sulle pagine qui sotto…

Strana cosa, la memoria di Giovanna Ruffatto – Primo Livello Adulti. Corso di Scrittura Online

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Strana cosa, la memoria
di Giovanna Ruffatto

Corso Adulti – Primo Livello

Era uno di quei giorni d’inverno, dove l’odore di umido impregna l’aria.
La nonna era nell’altra stanza. La camera ardente allestita nella casa di riposo profumava di rosa. A nostra nonna Elsa erano sempre piaciute le rose.
Arrivai all’ultimo, come al solito. Questa volta però non fu un caso, ma un fatto voluto.
Arrivai confondendomi tra il chiacchiericcio delle assistenti, degli addetti alla portineria e del bar, tutti in divisa.
Anche l’anziano Direttore ed il figlio erano in un angolo che parlottavano ad aspettarmi. Erano tutti quelli che se ne erano occupati anche al posto mio per tredici anni.
Mio marito ed i suoi parenti mi lasciarono andare avanti da sola. Non sarebbe potuto essere diverso. Tirai il fiato. Mi sentivo come un’amazzone al galoppo. Raggiunsi gli altri quasi correndo. Sembrava che mancassi solo io.
Poi entrai nella stanza. Un altro respiro lungo, indispensabile. Odore di formalina e rosa. Nebbia sugli occhi mentre guardo quel viso smunto che non pareva neanche più il suo. Le dita incrociate sul rosario, intorno al collo la sua collana di perle bianche e poi la camicia di seta sopra la gonna di lana, le calze beige e le scarpe con la fibbia lucida.
Quanto tempo era che non la vedevo vestita a festa?
Sentii mio figlio singhiozzare fuori. Un balzo ed ero accanto a lui, come una leonessa. Mia suocera lo abbracciava, mentre lui cercava di ritrarsi. “ Ti prego, almeno per oggi, lascia perdere” , dissi secca e lo presi per mano, piano.

Mi accovacciai accanto a lui in un angolo. Mi sembrava così piccolo, stretto nel suo cappottino nero, di lana buona. Ale non mi guardava mentre gli parlavo. Continuava a voltarsi verso il corridoio, verso la porta di ingresso. Ad ogni scorrere dei vetri, si girava di soprassalto.
“ Marco non verrà. Sarebbe venuto ieri. Lo sai che gli ho anche fatto telefonare”.
Avrei voluto abbracciarlo, stringerlo, dirgli che anch’io lo stavo aspettando.
Marco lo avevo aspettato tutto il giorno prima, dal mattino, quando dopo aver portato Ale a scuola , ero andata al capezzale della nonna.
Dopo che il telefono fisso mi aveva svegliato tra gli incubi di una notte qualunque, dopo che ero corsa giù per le scale tenendomi al muro per non cadere, dopo che mi ero seduta sul divano, dopo che avevo chiesto una pausa alla voce dall’altro capo, perché non riuscivo a capire, dopo che mi aveva spiegato che respirava male, dopo che mi aveva chiesto se doveva chiamare l’ambulanza, dopo che ci avevo pensato, dopo che avevo risposto di no.
E lì ero rimasta sola poi dal mattino mentre albeggiava,tra i suoi sospiri periodici, il gorgoglio dell’umidificatore, il soffio dell’ossigeno, il rollio lieve dei carrelli in corridoio, i passi svelti del personale, il ticchettio dell’orologio a muro. Anch’io non mi sentivo bene. Ma questo a mio figlio non potevo dirlo.
Non lo potevo dire a nessuno.
Solo chi è passato dall’inferno se lo può ricordare.
Ale annuiva piano mentre gli parlavo. Si era calmato. Restavano due gocce di lacrime ai lati del suo viso, appese.
Un altro respiro lungo. Feci chiudere la bara.

*

Subito non avevo riconosciuto la voce. ” Pronto. Pronto”. Quasi urlavo con insistenza, ero diventata un po’ sorda ultimamente. Me lo aveva confermato l’otorino.
Sorda, un poco accecata, con dolori lievi, a volte intensi, che non mi lasciavano già dal letto, già dal mattino.
Subito mi era parso Ale, ma il tono non era quello spensierato del mio ragazzo.
” Sono io”. E in tutta quella breve frase un lampo. Una vita.
Era la frase che Marco usava per svegliarmi. Vivevamo insieme da poco, allora, seppur fratelli.
Mia nonna Elsa veniva a casa nostra tutti i martedì e giovedì di ogni settimana comandata. E mia madre nello stesso istante usciva. Ci preparava una minestrina gustosa alle sette di sera, lavava i piatti, raccoglieva la biancheria sporca nella sua borsa di cuoio e poggiava un pacco profumato di appretto di biancheria stirata sul tavolo, senza dire una parola.
Tutti i sabati pomeriggio veniva a prendere mio fratello per lasciare la figlia tranquilla col marito e a me alla domenica, dopo la Messa.
Passavamo così da nonna Elsa tutti i fine settimana, tra semolini dolci e bistecche impanate piccole e sottili e patate a quadretti, che solo a tagliarle ci aveva messo una giornata.
Io poi andavo nella sua camera a studiare tutto il pomeriggio, mentre mio fratello le faceva compagnia sul divano mentre guardavano ” Domenica in”.
Poi la domenica sera, prima delle otto ci riaccompagnava casa. Prendevamo due pulmann e due coincidenze. E poi tornava a casa, prima che fosse troppo tardi. Io la guardavo dalla finestra della camera, mentre attraversava il corso ed aspettavo, senza dire niente a nessuno, finché risaliva sul pulmann.
Nonna Elsa cercava di trattarci allo stesso modo. Allo stesso modo eravamo i figli di sua figlia. Anche se io ero vissuta con mio padre e lui col suo e mia madre.
A nove anni arrivai a casa loro coi miei quattro vestiti buoni, i quaderni, il portapenne ed i libri. Che ho potuto sistemare in un unico scaffale della sua cameretta.
Che poi era un salotto, col tavolo rotondo al centro, ricoperto da un copritavolo all’uncinetto, circondato da quattro sedie imbottite di tessuto arancio, come parte delle antine dell’enorme armadio a muro, che arredava le pareti, su misura.
Il resto delle ante era color panna tra intermezzi ciliegio scuro, la moquette blu e i tendoni che impedivano alla poca luce di entrare, che rendevano tutto così scuro, anche nelle giornate di estate. Il neon della plafoniera illuminava solo un cono, sotto cui si doveva stare per poter studiare.
Il letto di Marco era stato previsto dal mobiliere. Un letto incassato nella parete, che veniva tirato giù solo poco prima di andare a dormire. Chiuso con una chiave inarrivabile per noi due bambini.
Il mio era un mobile letto, di quelli aggiunti per gli ospiti. Il materasso lo ripiegavo insieme alla rete al mattino, piegando insieme anche le gambe del letto di metallo, e le lenzuola , le coperte. Tutto fino a sera. Anch’io avevo il divieto di stendermici, fino a prima di coricarmi. A meno che non avessi la febbre. O dovessi andare a letto senza cena e chiudermi dentro quella stanza da sola, al buio, per castigo.
Allora era il momento che mi tornavano a trovare. Incubi a voce alta, incontrollati, incontrollabili. Nonostante Aldo, suo padre, se ne fosse lamentato più volte con mia madre, perché svegliavo tutti. Svegliavo il figlio Marco, che dormiva nella cameretta con me e svegliavo lui, soprattutto.

*

E mia madre me ne aveva parlato, una mattina, mentre facevo colazione.
Io bevevo il the e lei era quasi imbronciata, un po’ in imbarazzo davanti alla figlia che aveva solo creato problemi a tutti. E adesso non la smetteva con questo fatto, increscioso, di urlare la notte.
” E allora che avevi da urlare?”mi domandò . ” Non lo so” risposi.
“Come non lo sai? E’impossibile”. “Non mi ricordo”, tagliando corto, sempre, con sta storia della memoria. Mentre sorseggiavo il the caldo col limone. Lo sa che mi fa schifo il limone. Pensa che mi passi la nausea. Non mi passerà mai.
Ero dietro la poltrona verde della mia cameretta che avevo da mio padre. Nascosta nel buio sentivo un respiro affannato e vicino. Troppo per non avere paura.
Cosi avevo iniziato ad urlare:” Papà? Sei tu?”. Ma il respiro non cessava. Si faceva più vicino. ” Papà, papà. Aiutami”. Pensavo di essere al limite della disperazione, della paura.
Fu lì, che sentii per la prima volta la sua voce flebile:” Sono io”. E tutto passò. Aprii gli occhi e vidi tra la porta a vetri smerigli e la luce del bagno una figurina accanto a me. Marco, in piedi.
Fu lì che capii che avere un fratello, anche se conosciuto tardi, anche se pareva non mi volesse bene, anche se non avevamo lo stesso gruppo sanguigno, fosse importante.
Ora sentii lo stesso tono, tremulo :” Sono io”.
Feci due calcoli veloci. Doveva avere settant’anni.
E che voleva da me dopo venti anni di silenzio, dopo che aveva interrotto ogni comunicazione, dopo che non si era presentato al funerale di nostra nonna, dopo che era sparito dalla mia vita, come chi non ci è mai entrato davvero?
Avrei potuto buttare giù, staccare la comunicazione, il telefono, il filo.
Invece mi venne in mente mia nonna Elsa quella mattina dove l’odore di umido impregna l’aria. Respirava male. Mi riconobbe appena.
Poi, quando fu sicura che fossi io, mi strinse la mano nella sua, fredda, marezzata.
Sussurrava.” Promettimi che non litigherai con Marco, che non farai come hanno fatto tua madre e sua sorella.Mai. Promettimelo”.
Ed io promisi. Solennemente annuii piu volte col capo e risposi:” Te lo prometto, nonna Elsa”.
Era arrivata l’ora. Avrei potuto buttare giù e tutto sarebbe stato dimenticato. Gli anni insieme, i vent’anni lontani e le ingiustizie, le menzogne, le promesse non mantenute.
Invece risposi:” Come hai fatto a trovarmi? “.
Silenzio.
Che era già più di niente.

REDENZIONE: Un racconto in 14 capitoli di Francesco Breda (corso di scrittura online adulti)

Un nuovo racconto breve, a conclusione del percorso di tre livelli dei corsi online di scrittura di Moony Witcher. Questa volta il corsista che raggiunge il traguardo è Francesco Breda. Congratulazioni!

REDENZIONE
Un racconto in 14 capitoli
Francesco Breda

Terzo livello adulti
Corso di scrittura online

Gocce di pioggia tra la sabbia di Anna Dee – Primo Livello Adulti. Corso di Scrittura Online

Gocce di pioggia tra la sabbia
di Anna Dee

Corso Adulti – Primo Livello

La sabbia che conserva il calore del giorno si alza sollevata dal vento. Si aggrega prendendo la forma di un lungo serpente che, strisciando sulle dune, si ingrossa risalendo verso il cielo, illuminato da migliaia di stelle. Contro i profili d’onde, due figure avanzano a fatica verso l’ovest, un uomo e una donna soli. Si tengono per mano, il volto coperto da grandi fazzoletti di stoffa, gli occhi pieni di terra, persi in un oceano di colline che arrivano ad altre colline. Una distesa che pare infinita, finché in lontananza la luna appena sorta accende i bagliori di metallo della grande nave. Lei gli stringe forte la mano rivolgendogli uno sguardo dolce, mentre con l’altra mano trattiene e accarezza la grossa pancia. Sorride di un sorriso che lui non può vedere. A fatica scosta un lembo del fazzoletto e gli parla quasi urlando in mezzo al vento e alle nuvole di polvere.
─ Mario… Siamo arrivati…
Lui alza le sopracciglia, scuote la testa… Non capisce, ma la abbraccia e la stringe a sé.

***

Nuvole indaco e arancio si rincorrono nel cielo, strappato da lunghi lampi viola, rotolando sull’oasi di grattacieli lucidi di specchio, stagliati contro l’orizzonte. Si dirigono verso Piazza della Parabola, dalla quale partono come ragnatela lunghe strade liquide, terse dall’ultimo temporale. Mario Ventidue cammina a testa bassa. Non riesce ad apprezzare l’aria pulita né il profumo di carni cotte e verdure che scavalcano le finestre delle Persone Comuni, privi di lussi d’aria condizionata. Ha appena finito di lavorare e sta per prendere l’aeromobile lasciata un’ora prima sotto l’ombra degli alberi di Via dei Tigli, tra alte siepi di lillium rosa. Accende la vettura che viene sollevata da potenti soffi del motore. Gira la manopola accendendo la musica. Continue reading

Il Ritorno del Pettirosso di Cinzia Vianini

Un nuovo romanzo breve, a conclusione del percorso di tre livelli dei corsi online di scrittura di Moony. Questa volta la corsista che raggiunge il traguardo è Cinzia Vianini. Congratulazioni!

Il Ritorno del Pettirosso
Cinzia Vianini

Terzo livello adulti
Corso di scrittura online

Il racconto è anche scaricabile QUI

RITORNO A CASA di Giulia Acquistapace – Secondo Livello Adulti. Corso di Scrittura Online

RITORNO A CASA
Giulia Acquistapace

Secondo Livello – Corso Adulti

Il sole quasi autunnale rifletteva i suoi tiepidi raggi sui tetti ingrigiti della zona adiacente a Monte Mario, specchiandosi nel placido Tevere che, alla stregua di un nastro argentato, attraversava da millenni, imperturbabile, la città eterna.
Omobono se ne stava allungato sulla panchina proprio nel parco, sull’altura adiacente a casa, a rimuginare.
Il lavoro era stato particolarmente stressante negli ultimi giorni e le recenti ricerche l’avevano assorbito persino nei giorni di festa, costringendolo in centrale attaccato al computer, a sfinirsi la vista fra elenchi interminabili. Spesso si trattava di centinaia di opere di collezioni private, talvolta di nomi e cognomi di compratori e venditori ad aste. Qualche volta diventava un vero e proprio rebus il confronto di dettagli per scoprire le fini differenze fra falsi e autentici.
Insomma, da quando era arrivato a Roma il suo compito era stato uno soltanto, in cui ormai era diventato il numero uno: il recupero di opere d’arte rubate.
In Polizia era uno dei più giovani addetti ai lavori: senza moglie e figli a cui badare, senza genitori da cui recarsi la domenica a pranzo, Omobono era stato scelto da subito dal Comandante per quel compito delicato, nonostante il ragazzo avesse storto in naso e opposto una tacita resistenza passiva per i primi tempi: si riteneva un tipo d’azione e l’idea di passare ore ed ore fra quattro mura, fossero musei e collezioni oppure l’ufficio, lo disturbava non poco.
Finché un bel giorno non s’era innamorato: un mezzo busto di marmo, probabilmente una Cerere,
trafugato durante il trasporto fra il laboratorio di restauro sulla Nomentana e la residenza del ricco proprietario in una traversa di Via del Corso. Quando aveva raccolto la denuncia e aveva visto la foto, era rimasto affascinato dalla dolcezza del volto della dea, dalla severa armonia del gesto che stava compiendo, allungando le braccia verso lo spettatore, porgendo un cesto pieno di spighe ormai perduto.
Indipendentemente dal valore monetario, comprendeva quanto l’immagine potesse significare per il proprietario, la cui famiglia la possedeva da generazioni.

Si era buttato anima e corpo nella ricerca, prima nello studio della simbologia, poi sulle tracce di presunti ladri.
Ci aveva dedicato mesi e mesi.

Finché ecco, un bel giorno di autunno, pochi prima di concedersi un pomeriggio al parco, ce l’aveva fatta.
Avevano organizzato la perquisizione, quindi il blitz e l’opera d’arte era tornata ad ornare la casa dei proprietari, i quali, entusiasti, avevano persino fatto pubblicare un ringraziamento speciale nel
“Corriere della Sera” del sabato successivo lodando l’abilità del dottor Omobono Bodini, proprio lui, nel riconsegnare alla loro galleria e al pubblico una statua di tale importanza.

Il racconto prosegue, cliccate sulle pagine qui sotto…

IMPRONTE DI PARADISO di Giulia Acquistapace. Primo Livello – Corso Adulti

IMPRONTE DI PARADISO
di Giulia Acquistapace
Primo Livello – Corso Adulti

Il sole morente aveva concluso da pochi istanti l’ennesimo ciclo quotidiano tuffandosi nel mare sul versante della Grecia e le prime luci artificiali cominciavano a punteggiare la costa fino a Santa Maria di Leuca, disegnando una calda linea che delimitava ad occhio nudo nella notte il confine fra terra e mare.
Un uomo, accovacciato, dava gli ultimi ritocchi ai preparativi per la serata: due bicchieri, una bottiglia di champagne in fresca, due sedie a sdraio e tutto lo splendore della piscina solfurea di Santa Cesarea Terme erano un ottimo presupposto per il buon esito dei propri intenti. La Tramontana aveva spazzato per tutta la giornata il mare e il cielo, allontanando le nubi scure e la cappa d’afa che da giorni gravavano il respiro e facevano appiccicare addosso gli abiti leggeri di un fine Settembre che ancora sapeva d’estate. Il cellulare dell’uomo squillò: dall’ingresso qualcuno annunciava visite. L’uomo non attese, riattaccò la conversazione e riprese la posizione eretta. “Grazie al cielo”, pensò fra sé mentre si allontanava per ricevere l’ospite. Fece a due a due i gradini che lo riportavano a livello della strada e sfoderò prima dell’ultimo balzo il miglior sorriso, che andò tuttavia a spegnersi non appena scorse di spalle il venuto. “Ci mancava solo questa. Devo liberarmene al più presto o andrà tutto a monte prima ancora di cominciare, maledizione!”. Intanto il nuovo venuto si voltò senza entusiasmo al gesto del bagnino che indicava l’arrivo della persona richiesta. “Buonasera, dottore.”
“Buonasera a lei. A cosa devo il piacere della visita?”, mentre i tratti del volto tradivano il fastidio e l’impazienza.
“Ma prego, accomodatevi.” Il visitatore guardò dal sotto in su l’uomo che era venuto a cercare: “Spero di non aver interrotto nulla.” “Non vi preoccupate, mi preparavo alla mia consueta nuotata. A causa di impegni per oggi è stata posticipata e non saranno certo altri cinque minuti di attesa a rovinarla”, disse, sottolineando quei cinque minuti come a voler indicare il tempo massimo concesso per qualsiasi rimostranza (e ne era certo: se lo sgradito ospite si era preso al briga di venir fin lì, si sarebbe trattato sicuramente di una questione spinosa). Fece quindi strada facendo un cenno di congedo al bagnino che, sollevato, tirò giù con uno strattone la saracinesca del suo baracchino e si diresse con passo svelto verso casa.

*
CAPITOLO I

“In questo campo ci starebbe a meraviglia un gregge di pecore.” L’ispettore Anna De Rosa era così: se ne usciva all’improvviso con i commenti più improbabili senza una connessione logica col resto del dialogo. E suonavano ancora più assurdi se calati nel silenzio astioso di una deviazione tanto inattesa quanto inopportuna nella campagna salentina arsa dal sole. Il commissario sbuffò, guardando di sottecchi dallo specchietto retrovisore la collega abbandonata sul sedile posteriore dell’auto che, con sguardo svogliato, perlustrava il paesaggio senza prestare grande attenzione e soprattutto senza dare un sostanziale contributo nel raggiungere la meta. La cartina giaceva senza vita sulle gambe della donna, che teneva fisso il dito in un punto imprecisato della Puglia, mentre con l’altra mano si aggrappava alla maniglia del passeggero per evitare gli scossoni dati dalle buche della strada secondaria. “De Rosa, questo non è il presepio: un gregge qua, due pastori lì. A meno che non ci sia anche una stella cometa che ci conduca a destinazione!”. Nicola Renzi, al volante, sogghignò sotto i baffi. “E tu, Renzi, che ti vanti di essere del luogo! Invece di ridere: dove siamo? Non dirmi ancora che ci siamo persi! Se andiamo avanti così quel morto farà in tempo a diventar polvere prima del nostro arrivo!”. Renzi tornò serio: “Dotto’, non si preoccupasse! E’ qui, è qui! Siamo già a Porto Badisco: sa, qui mi ci portava sempre la mia nonna in bicicletta. Sapesse che mare! Anzi, se solo avessimo tempo, magari di ritorno…” “Renzi, guida e non fare programmi! E sbrigati, o persino il magistrato sarà lì prima di noi!”. “Comandi, commissario!”. Il silenzio tornò sull’auto che sfrecciava ora più decisa lungo la strada costiera che collegava Otranto a Santa Cesarea Terme, costeggiando ora la costa ora la campagna brulla, interrotta ora qui ora lì da qualche raggruppamento d’alberi selvaggi resistenti all’arsura. Le poche case di Porto Badisco passarono rapide al di là del finestrino e così il pezzo di discesa che ancora separava la Polizia dal luogo del ritrovamento. Arrivati in città, Renzi accostò parcheggiando con difficoltà l’auto al bordo del marciapiede della strada secondaria affollata che conduceva allo stabilimento termale. Il commissario saltò giù prima della fine della manovra, allontanandosi ma non abbastanza in fretta per non vedere gli ultimi dettagli dell’operazione: un colpo dietro ed uno davanti avevano concesso al pilota, con disappunto del superiore, di piazzarsi a puntino fra l’ambulanza e quella che ad occhio e croce poteva essere la macchina del medico legale: una punto anni Novanta da cui la dottoressa Malabarba, per motivi ignoti, non voleva separarsi.
“Commissario Melissano, prego per di qua.”, gli si fece incontro un uomo sulla cinquantina, verosimilmente il responsabile in seconda delle terme, dal momento che l’amministratore delegato, scesi alcuni scalini, giaceva su una sdraio al bordo della piscina sulfurea, evidentemente morto. “Dottor Riboni.”, fece Melissano. “Com’è successo? Avete qualche sospetto?” Il commissario già sapeva dalla recente telefonata intercorsa col medico legale che molti parlavano di suicidio. Riboni confermò quanto anticipato: “L’ha trovato qui il bagnino, il Vito (sottolineando con l’anteposizione dell’articolo al nome quanto le sue origini fossero lontane dal luogo del delitto). C’era una bottiglietta marrone con della polverina lì ai piedi della sdraio e lui era lì”, fece indicando con l’indice, “ proprio come lo vedete adesso. E poi c’erano i bicchieri, la bottiglia di champagne intatta… Sa, il Vito non l’ha voluto toccare! Che se poi la jella…” “Basta così”, fece Melissano, interrompendo quei commenti molto meno lombardi della dizione del nuovo facente funzioni. “Qualche problema? Qualcosa che secondo lei possa giustificare un gesto estremo come questo?” “Bha, non saprei. Lo stabilimento andava a gonfie vele. Anzi, Aldo aveva in mente qualcosa che proprio in questi giorni avrebbe fatto fare il salto di qualità alla struttura. Era un segreto, voleva parlarcene solo ad affare concluso, ma si vedeva che era al settimo cielo. Forse, ma non so… sa… il paese è piccolo… i pettegolezzi…”. Era evidente che Riboni voleva parlarne. “Vada avanti”, fece Melissano. “Bhe, sa… dicono che Aldo da qualche tempo si frequentasse con la Nina, la moglie del dottor De Bellis, il medico qui dello stabilimento. Lo sapevano in pochi, né! Fatto sta che il dottore aveva vinto un posto a Viterbo, in clinica, ed era intenzionato a lasciare Santa Cesarea con la moglie. Che so, magari non sopportava di essere lasciato… Sì perchè le donne fanno così, dicono dicono, ma quando si tratta poi di fare…” “Va bene, basta così.” Senza aspettare altro, il commissario andò verso il cadavere. “Fermò lì!” Melissano inchiodò. Scocciato, si voltò lentamente a vedere da dove la voce provenisse. Di lì a pochi metri c’era un omone appoggiato alla cinta di recinzione della piscina, imponente nella divisa arancione sormontata dalla chiara scritta: 118. “Prego?”, scocciato il commissario. “Sta’ a inquina’ la scena.” L’accento era romano, forse più di acquisizione che di nascita. Fumava un sigaro corto, depositando con cura la cenere nel piccolo contenitore ormai vuoto, attento a non disperdere tracce di tabacco bruciato. “La scena?” “L’ho delimitata, non vede?” Melissano si voltò: in effetti, di lì a poco il suolo circostante al cadavere era delimitato da nastro fluorescente. Gli oggetti entro il perimetro erano a loro volta etichettati con piccoli numeri e delimitati da stretti circoli di indelebile nero. “Bene, bene. Giochiamo al piccolo investigatore pure!” “Io non gioco. Ho delimitato la scena.” ribadì scocciato. Melissano si arrese. “Ho il piacere di parlare con il dottor…’” “Ulisse Lellis. Sono infermiere.” Non si preoccupò di stringere la mano che il commissario gli tendeva. Spense nella scatoletta definitivamente il sigaro. “Ho sentito tutte le stronzate che quello là – indicando con un cenno di sufficienza del capo Riboni – le ha raccontato. I bicchieri sono due. Uno è finito là, dietro la sedia a sdraio. E a me ‘sta storia non piace. E poi là c’è un’impronta. Ho isolata anche quella.” Il commissario rimase perplesso: non si fidava per usuale diffidenza, ma non si sentiva di bollare come stupidaggini le affermazioni di quell’infermiere che in fondo sembrava saperla lunga. E non solo a parole. Si limitò quindi a un cenno e procedette, aggirando la scena. Il medico legale era già lì. “Nella.” “Oronzo.” Si erano conosciuti ad una prima visita alla questura di Bari pochi mesi prima del trasferimento di Melissano dalla questura di Lodi. La dottoressa, bassa e rotonda, gli aveva subito ispirato simpatia. “Ti aspettavo. Sei invecchiato. Quanto ci hai messo?” Il commissario si passò la mano fra i capelli grigi che gli arrivavano alle spalle, abbassando gli occhi scuri sulla pancia un poco prominente al di sotto della camicia rigata azzurra e bianca. “Lasciamo perdere. Tu invece? Cosa mi dici?” “Ritengo improbabile il suicidio, se lo vuoi sapere. Troppo gonfio. Non ti so dire altro. Appena possibile, prenderò il tutto e lo porterò in laboratorio per l’analisi.” “Bene. E dell’impronta?”, aggiunse di malavoglia. “Uh, uh! Hai conosciuto il nostro Ulisse!”, fece Malabarba. Il commissariò fece un basso rumore gutturale in risposta, con una vaga cadenza interrogativa. “E’ un ottimo infermiere legale, lavora al 118 nella sede di Gallipoli. Abbiamo già lavorato insieme. E risolto alcuni casi grazie alla sua competenza. Non lo giudicare: lui è così. Ma ti potrà essere di aiuto, fidati. E’ in gamba. Comunque – dopo una breve pausa – non mi dice nulla l’impronta. Fra poco arriveranno i RIS, fagliela notare. Appena so qualcosa ti chiamo. Arrivederci, Oronzo!” “Arrivederci, Nella.” Si separarono, il medico legale verso la sua borsa e il commissario verso i suoi che nel frattempo l’avevano raggiunto. “De Rosa, con me.” Si allontanarono aggirando la piscina e si accomodarono per guardare in distanza la scena. Anna estrasse il block-notes. “Abbiamo un cadavere, Aldo Frontini, amministratore delegato dello stabilimento termale. Abbiamo due bicchieri e una confezione dal contenuto ignoto. Abbiamo un amante, Nina Cova, e un marito cornuto, tale medico del centro termale, dottor…” “Livio De Bellis, titolare di un posto a Viterbo, in partenza nei prossimi giorni.” “Brava! Vedo che hai seguito.” Anna si limitò a scuotere i capelli ricci raccolti un una corta coda di cavallo. Gli occhioni verdi guizzavano sulle parole annotate. “Abbiamo un probabile futuro amministratore delegato, Giacomo Riboni. Abbiamo un bagnino, Vito Russo, l’ultimo dei presenti a vedere la vittima viva e il primo a ritrovarlo cadavere. E’ lì, nell’angolo. Se poi vuole interrogarlo…” “Vedo che hai già provveduto. Che ti ha detto?” “Niente di più di quello che ho riportato ora. Era sconvolto e spaventato. Ed ha un alibi: stanotte ha dormito dalla fidanzata, tale Grazia.” “Va bene, ci preoccuperemo poi di verificare.” Nel frattempo giunsero i RIS e con loro giunge anche il magistrato. “Dottor Marangi.” “Dottor Melissano – si salutarono. Novità?” “Per ora nulla, ma stiamo indagando. A quanto pare ognuno dei coinvolti ha una propria versione dei fatti.” “Bene. Cioè, male. Smobilitiamo il prima possibile. L’aspetto fra due ore qui in comune nell’ufficio dei Vigili per il punto della situazione. E mi raccomando Melissano, discrezione. Discrezione!”, e si separarono.

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