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LO SCONOSCIUTO di Francesca Arcangeli
. Secondo livello Bambini. Corso di scrittura online

LO SCONOSCIUTO di Francesca Arcangeli
Corso Bambini- Secondo Livello

Era una sgargiante serata di fine ottobre. Il cielo aveva sfumature rosso cremisi e gli ultimi uccelli svolazzavano allegri verso il proprio nido. Passeggiavo per una vecchia strada di campagna fatta di sporco e consunto asfalto, per una destinazione a cui non dovevo neanche pensare. I miei piedi l’avevano percorsa così tante volte nell’estate che ormai ci avevo fatto l’abitudine. Un leggero ma gelato vento scompigliava i miei capelli gettandoli all’aria e il mio naso iniziava a congelare, ma ero troppo presa dai miei pensieri per badarci, pensieri così complicati che avrebbero mandato in tilt chiunque. La scorsa notte infatti avevo fatto il solito sogno ricorrente, ormai era un abitudine ma mi colpiva lo stesso e nel frattempo mi irritava, si mi irritava perché tutte le volte che lo facevo avevo la sensazione di essere vicina a scoprire qualcosa e che, all’ ultimo momento, mi sfuggiva. Nel sogno mi trovavo in una stanza, aveva le pareti strette e dal soffitto proveniva un illuminazione a luce violetta, senza però bisogno di un lampadario o delle lampadine per estenderla. Il pavimento era di sabbia e non c’erano finestre o porte, a eccezione di una piccola porticina fatta di marmo bianco. Nel sogno mi avvicinavo alla porta e la spalancavo. Dietro la porta trovavo un’ altra stanza, la pareti coperte di antichi ritratti di dame e cavalieri in armatura ma non era lì che dovevo andare, avevo la sensazione di dover andare urgentemente avanti. Passavo un’altra porta, questa volta di legno laccato, e giungevo in un’altra stanza, questa volta rotonda e guardavo su, sul soffitto, dove era raffigurato un sole dorato e rifinito perfettamente congiunto con una mezza luna di un bianco splendente che emanava come un magico bagliore e, dopo questa scena, il sogno finiva. Il bello era che quel simbolo mi ricordava qualcosa ma ogni volta che cercavo di ricordare c’era come una foschia nel mio cervello, come un buco vuoto. Avevo cercato quel simbolo da tutte la parti, su tutti i libri di miti e leggende su cui riuscivo a mettere le mani e tutti quelli che i miei genitori non mi confiscavano. Ma dopotutto loro non erano i miei veri genitori. Avevo vissuto per un anno insieme a mia nonna, l’unica mia parente ancora in vita e quando anche lei morì mi trasferì dal fratello di mio papà, non che non avessi potuto andarci anche prima ma la nonna voleva tenermi con se, diceva che loro non capivano quanto ero importante. Anche solo la parola suonava strana, importante come no, i miei zii neanche mi guardavano. Tutti mi trattavano come se non esistessi e io non mi sono mai lamentata, anzi, a me faceva piacere. L’unica che mi considerava, purtroppo, era la figlia dell’ amica-vicina di casa di mia zia, che non la smetteva mai di prendermi in giro perché non avevo i genitori. In realtà della mia vera madre e del mio vero padre non sapevo veramente nulla, erano scomparsi così senza lasciare traccia o almeno era quello che mi diceva sempre la nonna, eppure vedevo una strana luce nei suoi occhi quando ne parlava, una luce di nostalgia. Avevo camminato per metri e metri senza accorgermene, come sempre. Erano quasi le sette e decisi di svoltare per tornare a casa, la zia si sarebbe arrabbiata ancora di più se avessi fatto tardi per la cena. Tornavo in dietro lentamente come sperando che più tempo rimanevo su quella vecchia strada meno ne passavo nella villetta dei miei zii. Una speranza inutile, lo sapevo già, tanto avrei dovuto passarci una vita intera! Svoltai all’angolo sbagliato e mi trovai in vicolo cieco. In fondo c’era una figura bassa e incappucciata, si avvicinò zoppicando vistosamente e riuscì ad intravedere appena il suo volto alla luce del tramonto. Era un uomo anziano, una cicatrice gli partiva dall’occhio destro fino ad arrivare alla piccola bocca storta e sottile. Aveva la pelle rovinata dal tempo e mi fissava con due piccoli occhi rotondi e neri come la pece. Solo quando fece un altro passo zoppicante in avanti mi accorsi che era vestito in maniera alquanto strana: portava un cappello a bombetta rosso acceso che non si intonava molto ai suoi capelli di un biondo sporco lunghi fino alle spalle. Le sua maglia era piena di strappi e cuciture, di un verde foresta e era abbinata malamente a dei pantaloni lunghi e neri rattoppati con stoffe di diversi colori come verde acido o blu notte. Qualunque persona normale di testa sarebbe scappata via urlando, ma non io, io rimasi lì a fissare quell’uomo dall’aspetto spaventoso, guardando il suo volto duro e solcato dalle rughe e dal tempo ma che, dietro a quegli occhi, nascondeva ancora qualcosa di umano. All’improvviso parlò con una voce dura e rauca: << Allora ragazza tu sai perché sono qui vero?>> mentre parlava si avvicinò ancora di qualche passo.
<>, sinceramente non ne avevo proprio idea. Non l’avevo mai visto, figuriamoci se sapevo che cosa ci faceva lì. Magari era un vecchio parente? Impossibile, me lo sarei ricordato: guarda com’era vestito! Frugai nella memoria ma alla fine mi arresi al fatto che per me era un perfetto sconosciuto e che non sapevo per quale assurda ragione si trovasse in un vicolo buio, di notte e per giunta stesse parlando con me.
A quanto pare interpretò il mio silenzio come un no perché aggiunse un po’ spazientito: << Bene, allora mi toccherà spiegarti tutto dall’inizio. Sai almeno chi sei?>>
A questo punto ero un po’ confusa, forse aveva preso una botta in testa o quella stupida bombetta gli bloccava la circolazione? Certo che sapevo chi ero! Stavo per rispondergli ma mi interruppe: <> disse con un tono di voce che sfiorava l’esasperato.
<< Tu sei un lupo.>>.
Si, a questo punto era chiaro che aveva preso una bella botta in testa. Prima che potessi dire qualcosa, però, mi interruppe di nuovo e disse: <> si frugò nella tasca dei pantaloni e ne estrasse un amuleto. Quasi urlai dall’eccitazione: attaccata a un piccolo filo d’argento c’era l’immagine dei miei sogni, un sole dorato congiunto con una luna brillante. Notai poi che anche lui aveva lo stesso medaglione, ma cosa significava? Forse aveva veramente ragione, ero davvero un lupo? Ormai tutto era possibile. Lo presi tra le mie dita tremanti e me lo infilai al collo, l’effetto fu immediato. Di colpo mi sentì forte e non più fragile come ero prima. Una bellissima sensazione di libertà mi invase da capo a piedi.
<> all’improvviso si trasformò in un grosso lupo marrone e sparì correndo per la strada ormai illuminata solo dal chiaro della luna. Il giorno dopo lo rincontrai e il giorno dopo ancora e, dopo una serie di dettagliate istruzioni, decisi che la sera del giorno seguente avrei provato a trasformarmi.
Così, a mezzanotte di sabato, corsi fuori e andai in un bosco lì vicino. La luce della luna si risplendeva nei miei occhi preoccupati. Magari era stato tutto uno scherzo, impossibile, lui si era trasformato no? Mi concentrai, come aveva detto lui, su un ricordo sereno, il più bello che avessi mai concepito. Pensa, pensa e poi un’ immagine mi venne in mente: la foto dei miei genitori nel salotto della nonna tanti anni prima, sorridenti e felici. Un istante prima ero lì a pensare e un istante dopo correvo. Le mie zampe grandi e bianche come la neve solcavano il terreno veloci e sicure, i tagli dei rovi si rimarginavano subito e sentivo delle voci nella mia testa, dei sussurri. Dopo un po’ che gli ascoltavo capì che erano pensieri, pensieri di persone vicine e lontane da me. Quindi riuscivo a leggere nella mente, ecco il mio potere unico. Mentre provavo a concentrarmi su un singolo pensiero per ascoltarlo scorsi il mio riflesso in un laghetto lì vicino: una grande, bellissima lupa bianca come la luna mi restituiva lo sguardo fiero e poi un ululato lacerò la notte, il mio ululato, un urlo di trionfo per il fatto che finalmente non mi sentivo più fuori posto, che finalmente ero libera. Nelle settimane seguenti appresi che esisteva un posto dove tutti i muta-forma vivevano insieme. Lasciai la mia vecchia e odiata casa per raggiungere quel luogo, un luogo in cui c’erano persone che mi accolsero come un’amica. Il vecchio che avevo conosciuto mi seguì, restammo amici per sempre perché lui mi aveva dato una mano, lui mi aveva portato in un mondo dove finalmente mi sentivo a casa, il mio mondo, il mondo da dove non sarei mai uscita.

Francesca Arcangeli

LA CASA DEI MISTERI di Isabel Sacchetti. Primo livello Bambini. Corso di scrittura online

La Casa dei Misteri di Isabel Sacchetti

Corso di scrittura bambini – Primo Livello

 

Siamo a Londra nel 1871.
A ovest, nascosta alla città dagli alberi di Regent’s Park, c’era una casa che tutti chiamavano “Casa dei misteri”.
Era una villetta con tante stanze: due camere da letto con letti a baldacchino, due comodini di legno e vecchie lampade a gas, un ampio salotto con un camino sporco di cenere e c’era anche un grosso divano con la copertura blu bucata, due sedie di pelle ormai graffiata, una grossa soffitta polverosa con nascoste strane mappe e lenzuoli strappati, una scala portava giù in una grande cucina, con un ghiacciaio una dispensa con dentro solo farfalle e insetti morti e una scatola di pane ammuffito. Un’altra immensa scala  portava ad altre stanze sempre chiuse a chiave con delle porte di legno  diroccate. Fuori c’era un grosso cortile d’erba con pochi alberi morti e fiori secchi anche in piena estate.
La chiamavano casa dei misteri perché, ogni notte, a mezzanotte in punto dalla casa provenivano ululati e rumori sinistri, che spaventavano la città.
Era abitata da un vecchio fantasma che stava in soffitta tutto il giorno e faceva altri rumori che la gente non gradiva affatto.
Un giorno iniziò a girar voce che qualcuno sarebbe andato ad abitare in quella casa, e infatti qualcuno arrivò. Era una famiglia, composta dal signor Bartolomeo Wordigan, da madam Maria Mistrò e da un bambino curioso di nome Fabian Wordigan. Il signor Wordigan era una persona un po’ cicciotta con pochi capelli ed era molto spiritoso, la signora Mistrò era una signora magra coi capelli corti biondi e ricci, pensava sempre in modo positivo, come si vedrà nel corso della storia e il signorino Fabian era  un bambino alto con capelli castani e con una personalità veramente vivace. Tutti li guardavano male, perché nessuno era mai andato ad abitare in quella casa.
Appena entrarono una nuvola di polvere gli coprì gli occhi e quando riuscirono a riaprirli davanti a loro si presentò uno spettacolo tremendo: tavoli e sedie ribaltate, vasi di fiori rovesciati, acqua dappertutto, perfino topi che zampettavano e si infilavano nei buchi della parete.
Ma madame Mistrò non si scoraggiò e disse in tono solenne: -Noi la rimetteremo a posto e scacceremo via tutti quei brutti topastri!-. Bartolomeo Wordigan e Fabian non erano tanto convinti ma annuirono lentamente con il capo.
La casa era un vero disastro e per riordinarla correttamente ci sarebbe voluta almeno una settimana e madame Mistrò ne era consapevole.
Quel curiosone di Fabian andò subito ai piani superiori  a sbirciare le stanze chiuse a chiave e quando provò ad aprirle e  le trovò chiuse ci rimase molto male. Allora sbirciò nel buco della serratura e vide una cosa che lo colpì molto: da una parte lo spaventava e dall’altra lo incuriosiva sempre più.
Dentro la stanza c’era nientemeno che…….una grossa sfera rossa che lampeggiava ad intermittenza, poggiata su un tavolo di legno d’ebano. Appena la mise a fuoco subito distolse lo sguardo dalla sfera, o meglio dire cercò di distogliere lo sguardo dalla sfera. Era come se quella sfera lo tenesse imprigionato lì, per punirlo di aver  ingordamente  spiato dalla serratura.
Intanto ai piani bassi, madame Mistrò  e suo marito stavano cominciando a rimettere in ordine la casa partendo dal salotto. Erano le 20,00 quando avevano appena finito di spazzare la polvere e tirare su l’acqua e i vasi rovesciati e gli venne fame. Decisero di mangiare del pane con spalmato del pomodoro e dissero:- Fabian vieni a mangiare!- Fabian sentì ma non riusciva a parlare perché quella sfera lo teneva imprigionato lì a guardarla. Quando Maria andò a cercare Fabian e lo vide imprigionato lì mancò poco che svenne. Chiamò suo marito e insieme decisero di chiamare il dottor Buramon, che era specializzato in: casi senza ipotesi. Era molto ricco ed abitava a Kensington.  Il dottor Buramon era un vecchio signore coi capelli bianchi, gli occhiali quadrati e due baffetti anch’essi bianchi. Portava un camice bianco con una taschina da dove spuntavano un block-notes e un tappo di biro che lui portava sempre con se. Appena arrivato alla casa rimase sbalordito dal disordine ma fece finta di non notarlo.
Quando vide il bambino attaccato alla sfera lo staccò con la forza  e vide che i suoi occhi erano rosso sangue fissi sulla serratura e il corpo tremava tutto. Gli diede subito una medicina di nome: “Scindie  per casi disperati”.
Poi disse ai genitori: – Fra qualche ora tornerà come prima- questa frase rassicurò  madam Mistrò e il signor Wordigan, ma non li tranquillizzo del tutto.
Un  paio d’ore dopo come previsto Fabian si svegliò e si promise di non spiare più nel buco della serratura.
Scese e trovò il dottor Buramon che parlava coi suoi genitori, si nascose sotto la scala per ascoltare senza essere visto. Stavano parlando del fatto che in giro per la città girovagava un vagabondo; nessuno sapeva il suo nome si sapeva solo  che abitava a  Lambeth.  La mattina dopo Fabian uscì per dare un’occhiata alla sua nuova città. Stava passeggiando a Leicester Square quando si scontrò con una bambina – Ciao io sono Penny, Penny Lisley. E tu?-  chiese la bambina. – Io sono Fabian Wordigan, piacere di conoscerti Penny.- Penny Lisley era una bambina alta con dei  capelli corti biondi, due grandi occhi marroni e delle lentiggini marroncine. Lei era molto originale, si vestiva stravagante anche se i suoi  genitori erano molto ricchi. Penny era molto simpatica e chiese: – Oggi posso venire a casa tua?-  -Certo! Dai vieni, non abito molto lontano.-
Appena Penny arrivò davanti alla casa  per poco non urlò poi chiese:-Ehm tu….abiti qui?-
-Sì- rispose Fabian – La mia mamma l’ha messa a posto insieme a mio papà, ora e bella, oggi volevo vedere il fantasma. Ti va?-  Penny annuì e con un po’ di timore entrò con il suo nuovo amico nella casa.

Fabian entrò e disse:- Mamma ho una nuova amica- Penny e madame Maria si presentarono e andarono subito molto d’accordo, tutti insieme bevvero una cioccolata calda, senza papà perché era andato a Pentonville a cercar lavoro.
Penny e Fabian andarono  in soffitta a cercare il fantasma, quando salirono e non lo trovarono stavano per tornare indietro quando eccolo lì sbucare fuori! Era proprio trasparente, aveva un mantello e aveva due grossi baffi. Penny e Fabian urlarono e scapparono di sotto.
La mattina dopo Fabian si alzò di buon ora e andò a suonare a casa di Penny. Lei scese subito e insieme andarono a passeggiare a Trafalgar Square. Fabian raccontò che il fantasma era sparito ed aveva infestato un’altra casa. Penny batté le mani  felice.
Poi però videro il vagabondo, iniziarono a correre verso la casa di Penny ma lì c’erano troppe carrozze e non si riusciva a passare andarono allora verso la casa dei misteri entrarono chiusero il chiavistello e raccontarono tutto a madame Maria Mistrò che li fece sedere sul nuovo divano a bere una tazza di thè. Poi videro a parlare con il signor Wordigan  il dottor Buramon, ma in un angolo della cucina c’era il vagobondo legato e imbavagliato anche il signor Bartolomeo era legato alla seggiola chiamarono madame Mistrò che appena vide la scena svenne.
Il dottor Buramon fece una risata maligna e gli occhi gli uscirono fuori dalle orbite.
Poi si gettò al loro inseguimento, Penny e Fabian scapparono corsero dentro Hyde Park  si nascosero dietro un albero sperando che non li vedesse. Ad un  tratto arrivò una carrozza con uomini armati che presero il dottor Buramon e dissero:-Lui è un ricercato, è pazzo e andrà dritto in prigione- poi ringraziarono i bambini di averlo scovato e rientrarono nella carrozza.
Fabian e Penny tornarono a casa liberarono il signor Wordigan, risvegliarono madame Mistrò  e liberarono anche il vagabondo che si scoprì che si chiamava Umberto Daing, era una persona normale tutti lo chiamavano così perché viaggiava sempre e  rivolgeva la parola in modo brusco a chi gli chiedeva informazioni, poi tornò a casa sua dove c’era ad aspettarlo il suo cane.
La settimana dopo il signor Bartolomeo tornò a casa felice dicendo di aver trovato lavoro come cocchiere, Penny e Fabian diventarono molto amici e la città non considerò più ne la famiglia ne Umberto strani.
Il giorno dopo la regina li chiamò per ringraziarli di aver risolto il caso e gli regalò un servizio da thè. Tornando a casa Fabian disse:-Secondo me, incontreremo altri misteri in questi anni- -Hai ragione. Però noi naturalmente li risolveremo!- e tutti e due si misero a ridere.

 Isabel Sacchetti

LA CASA DEI MISTERI di Gaia Bigoni. Primo livello Bambini. Corso di scrittura on line

La Casa dei Misteri di Gaia Bigoni

– Corso bambini – Primo Livello

 

E’ il 20 gennaio e nevica fitto fitto. Sono in casa, da sola, e osservo dalla finestra i fiocchi che scendono lentamente. Vivo su una collina, proprio accanto al suo esatto centro. Ed è dalla mia cameretta che riesco a scorgerlo, insieme a quella nebbia che non lo abbandona mai. Chissà perché, non mi sono mai avvicinata a quel castello spettrale. Mi fa venire la pelle d’oca solo pensare a quella cancellata che lo circonda, nero come le piume del corvo e con degli spuntoni come punte delle lance preistoriche.

 <Chissà se ciò che mi ha raccontato Erica è la verità..> dico tra me e me, seguendo con lo sguardo un fiocco di neve che, trasportato da un soffio di vento, va a posarsi dentro al grande giardino del castello abbandonato.

 Erica è la mia migliore amica, andiamo a scuola insieme.

 Io mi chiamo Noemi e ho dodici anni.

 <Noemi, lo sai che cosa mi ha raccontato mia nonna? Hai presente quel vecchio castello, vicino a casa tua? Mi ha detto che, centinaia di anni fa, ci vivevano due strani signori. Avevano all’incirca l’età dei nostri genitori, sui 38. Beh, loro avevano l’abitudine di uscire alle 6:00 del mattino e di ritornare sempre alle 12:00 in punto. Non sgarravano mai di un minuto, sembravano dei robot programmati per fare sempre gli stessi gesti, gli stessi movimenti. Un giorno, però, sbagliarono. Era il 20 di gennaio, e nevicava tantissimo, un po’ come oggi, dunque. La signora indossava un gilet di lana molto pesante e spesso che, al ritorno, si è impigliato nell’albero di fianco al castello. Il marito ha cercato di aiutarla, ma più tiravano più la lana si intersecava con la neve e i ramoscelli. Sembrerebbe che, alle 12:01, i due siano spariti, nel nulla, senza più lasciare loro notizie. Strano, vero?>.

Ecco, adesso sapete ciò che mi ha spiegato la mia amica. Già, proprio strano. Chissà, magari è una semplice leggenda. Ma io sono sempre stata curiosa e adesso mi sono intestardita: voglio assolutamente andare a fondo di questa faccenda!

Mi alzo e mi infilo in fretta un maglione rosso porpora. Mi metto un paio di anfibi che arrivano poco sotto al ginocchio, un cappotto e prendo la borsa con dentro le chiavi di casa, dei fazzolettini e un piccolo blocco con una penna. Ho intenzione di interrogare qualche passante, in modo di scoprire qualche informazione in più. Appena apro la porta per uscire, sento la pelle del viso gelarsi. Fa davvero un gran freddo, sembra quasi di essere al polo nord! Cammino lentamente e mi apposto vicino alla fontana, ormai ghiacciata completamente, aspettando pazientemente che qualcuno passi. La prima che vedo è una vecchia signora che vive di fronte a me e, data l’età, penso che potrebbe essere un buon soggetto per iniziare. Mi avvicino e la saluto. La vecchietta, sempre sorridente, contraccambia il “buonasera” e fa per continuare la passeggiata, ma io sono più veloce e le chiedo: <Mi scusi, lei sa qualcosa su quel vecchio castello? Sa… devo.. Fare una piccola ricerca per la scuola e mi sembrava un buon soggetto!> mi invento, sperando che la signora non abbia niente di urgente da fare. Per la prima volta, da quando l’ho conosciuta, ho visto il suo viso oscurarsi. <Mi dispiace, ma temo che dovrai cambiare argomento. Quello non è proprio il castello più adatto sul quale svolgere una ricerca, te lo assicuro. Perché non provi con qualcosa di più classico, che so.. La torre di Pisa?> propone la vecchietta, riprendendo lentamente a sorridere. <Ehm.. Perché no?! Grazie mille, mi è stata di grande aiuto..> farfuglio, fingendomi di buon umore. Dentro di me, però, i punti interrogativi si fanno più grandi. “Perché mai non ha voluto parlarmi di quel castello? Cosa ci sarà di tanto orribile?” penso, guardando la signora allontanarsi a grandi passi, facendosi strada tra i grandi cumuli di neve ammucchiati. “Ok, io non mi arrendo! Proverò con un altro passante!” decido, facendo il grave errore di sedermi sulla fontana ghiacciata. Mi rialzo in piedi come se ci fossero stati mille chiodi appuntiti e torno alla posizione iniziale: in piedi, con le mani (ormai quasi ghiacciate anche quelle..) nelle morbide e calde tasche del cappotto. Aspetto per almeno dieci minuti e non passa anima viva. Decido di appostarmi un po’ più a destra, dove passa un po’ più gente, ma quasi non faccio in tempo a pensarlo che vedo un signore in lontananza camminare nella mia direzione. “Fantastico, quello è lo spazzino Jim! E’ simpaticissimo e sicuramente saprà qualcosa su quel castello, lavora qui da molto tempo..” penso, tornando sorridente. <Buonasera, Jim! Come stai?> gli chiedo, agitando la mano. Per me è come uno zio, spesso viene addirittura in casa ad aiutarmi a fare i compiti quando mamma e papà sono troppo impegnati col lavoro, oppure quando ero più piccola mi leggeva le favole.. Insomma, ho tanti bei ricordi legati a lui! <Oh, ciao piccola! Cosa ci fai qui fuori, nevica fortissimo! Dovresti essere a casa a sorseggiare una buona cioccolata calda!> mi dice lui, facendomi l’occhiolino per sottolineare le ultime parole. <Si, adesso rientro.. È solo che mi servirebbe il tuo aiuto!> tento, sperando che non rimanga sul vago anche lui. Appena Jim annuisce, chiedo immediatamente di spiegarmi qualche cosa sul castello, senza aggiungere la bugia del compito: con lui posso essere sincera. <Veramente.. Preferirei non parlare di quel castello, non è il posto per voi ragazzi! Piuttosto.. Perché non vai davvero a berti quella cioccolata calda, su!> mi incita, indicando casa mia. “Non è possibile!” penso, sgranando gli occhi. <Ma.. Perché non me ne volete parlare? Che cos’ha di tanto brutto quel castello?> insisto, sperando che ceda. Ma Jim è irremovibile e non mi resta che tornare a casa, sotto il suo occhio vigile che controlla ogni mio movimento. “Altro buco nell’acqua..” penso, sconcertata. Mi sforzo di mettere insieme i pochi tasselli che ho a disposizione, ma mi rendo immediatamente conto che sono troppo pochi. “Aspetta! Se andassi lì, magari ci capirei qualcosa.. Certo! Mancano esattamente due ore prima che i miei tornino dal lavoro.. Uhm.. Forse è meglio rimandare il tutto a domani, così informo anche Erica e qualche altro compagno, se volessero venire con me sarebbe più divertente e.. mi sentirei più sicura!” sono euforica per questa bella idea, ma qualcosa ancora frena il mio entusiasmo. “Però.. Quel castello fa una gran paura.. Non so se avrò il coraggio di entrarci!”. Cerco di non pensarci, per ora e mi concentro singolarmente sui compiti che ho davanti. “ODIO LE FRAZIONI!” penso, dopo essermi soffermata per più minuti su un’operazione complicatissima. La serata vola in fretta ed è già ora di andare a dormire. Mi giro e rigiro nel letto fino a mezzanotte, poi, finalmente, mi addormento e lascio per un po’ il mondo reale.

DRIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIN!!

<Oh, No.. È già mattina?> sussurro, aprendo prima un occhio e poi, molto più lentamente l’altro. Spengo quel frastuono e scendo a fatica dal letto. Poi mi scuoto, ricordandomi che è il “grande giorno”, quello della spedizione! Faccio velocemente colazione e mi lavo i denti in fretta, in modo da avere il tempo di scrivere cinque bigliettini: “NON ANDARE SUBITO A CASA, DOPO LA SCUOLA! ASPETTA SOTTO CASA MIA! DEVO DIRTI UNA COSA IMPORTANTE! BY NOEMI.” Ho deciso che li avrei attaccati a un libro di Erica, Samantha, Elisa, Roberto e Kevin, i compagni di classe più simpatici. Corro a scuola nonostante manchino ancora venti minuti e trovo, come previsto, Samantha e Elisa che arrivano sempre molto presto. <Ciao, ragazze! Tenete questi!> dico immediatamente, allungando loro due dei biglietti. Li leggono attentamente e annuiscono. <Vi spiego oggi pomeriggio!> continuo, correndo via, perché ho visto arrivare Kevin e Roberto. L’ultima è Erica che arriva dieci minuti dopo. Sono tutti e cinque molto curiosi, ma non rivelo niente per non dare nell’occhio: ormai ci sono almeno una cinquantina di alunni nel piazzale e discorsi su castelli avvolti dalla nebbia non passerebbero certo per normali chiacchiere sportive!

Così mimo “dopo!” con le mani e, in quel preciso istante suona la campanella.

<Ragazzi, aprite il libro a pagine 50..> borbotta la scorbutica insegnante di matematica. “Uffa.. Speriamo che la mattinata passi velocemente, adesso non sto più nella pelle!” penso, osservando un’espressione con almeno cento numeri. Per fortuna il mio “desiderio” si avvera e le ore trascorrono piuttosto velocemente, grazie al fatto che la professoressa è chiamata ben tre volte in un’altra classe per chissà quale strano motivo. <FINALMENTE!> esulto, appena metto piede fuori dalla scuola. Approfittando del fatto che gli altri cinque sono, casualmente, vicini tra di loro, li trascino verso casa mia e spiego loro il piano. Rimangono tutti allibiti, soprattutto Erica, che mi conosce meglio degli altri e sa perfettamente che quel castello mi ha sempre dato i brividi. <Sei.. sicura?> mi chiede, infatti. <Certo! Sarà una bella avventura, non trovate? E poi se è disabitato non può sgridarci nessuno, no?> commento, anche se un briciolo di tensione è sempre presente e non sembra avere intenzione di lasciarmi. <Io ci sto!> risponde Kevin. Anche gli altri, dopo qualche secondo di esitazione, accettano. <Bene! Ho qui, dentro allo zaino, il pranzo al sacco per tutti. In più sei torce, una fune (non si sa mai..) e sei walkie talkie.> annuncio, tirando fuori l’attrezzatura e porgendo i panini al prosciutto, formaggio o salame. <Sei proprio attrezzata!> commenta Elisa, strizzandomi l’occhio e divorando il suo panino. Dopo il pranzo, durato non più di un quarto d’ora, osserviamo l’albero della “leggenda” che mi ha raccontato Erica a pochi metri di distanza. Mi faccio coraggio e mi avvicino. “Hey!” penso, notando un pezzo di lana infilato in un rametto. “Che sia.. Quella della signora? Ma no, non può essere..sarà una semplice coincidenza, ecco tutto!” scaccio via quell’assurda idea, anche se devo ammettere che la cosa mi spaventa un po’. Il castello è sempre avvolto da quella sottile nebbiolina inspiegabile. <Mi sa che dobbiamo scavalcare!> annuncia Roberto, tenendo la pila in una mano e il walkie talkie dall’altra. Si arrampica sul cancello ghiacciato. <Ma sei matto? Potresti scivolare!> esclama Samantha, spalancando gli occhi. <Tranquilli.. Sembra ghiacciato, ma in realtà non c’è traccia di neve! E’ incredibile, ma è la verità! Toccate una sbarra!> ciò che dice Roberto ci sembra un’assurdità, ma dopotutto provare non costa niente. Tocco con la mano gelata uno spuntone e avverto quasi un leggero.. Calore! <Com’è possibile..> sussurro. “Beh, non c’è tempo!” penso, scrollandomi e scavalcando il cancello. Anche gli altri mi imitano e, in men che non si dica, siamo dentro. <Una volta, ho sentito un signore parlare con un suo amico di questo castello! Per caso ho scoperto che tutti lo considerano una casa dei misteri, ovvero una casa stregata! Non sono riuscita a capire benissimo per quale motivo, ma dalla faccia cupa del signore ho capito che non deve essere niente di piacevole!> annuncia Samantha. <Già.. Anche io ne avevo sentito parlare! Dicono che ci siano addirittura degli spettri, ma sinceramente non ci credo..> ammette Roberto. Accendono le pile, perché in quel posto lugubre, nonostante sia a due passi dal resto del mondo (dove sono ancora le 14:00..), sembra notte fonda.

<Accidenti, qui è tutto così.. Spettrale!> commenta Erica, facendo leggermente tremolare la voce. <Se avete paura.. Possiamo tornare indietro!> aggiungo, che ho la tentazione di scappare da questo terrificante posto a gambe levate. <Ma no, proseguiamo! Voglio esplorarlo per bene questo castello!> risponde invece Kevin, spostando la flebile luce della pila verso la porta d’ingresso. Un corvo, tanto per “rallegrare” l’atmosfera, lancia un grido e si alza in volo appena Samantha tocca la maniglia per entrare. “Fantastico.. Proprio come nei film horror! Ma dove siamo capitati?” mi chiedo, pentendomi immediatamente della scelta improvvisa di visitare questa specie di casa stregata. La porta si apre con un leggero sibilo a un tocco di Elisa e, facendoci coraggio, entriamo in fila indiana. <Bene.. Fin qui tutto a posto, no?> sussurro, come per cercare di tranquillizzare gli altri, ma soprattutto me stessa. <S-sì..> la risposta di Samantha arriva come un soffio lontano mille anni luce. <HEY, DOVE SIETE FINITI?> urlo, appena sposto la luce della pila da un muro qualsiasi al punto in cui, in teoria, dovrebbero esserci i miei amici. Sono spariti tutti, sono da sola!

“Ok, niente panico.. Ci deve essere una spiegazione logica! Magari hanno visto una luce e l’hanno seguita, mentre io ero soprappensiero.. No, non può essere, mi sono voltata solo per qualche istante, troppo poco per riuscire a dileguarsi in questo modo!” la mente si riempie di pensieri, prima che riesca a notare un fatto molto insolito. <Un momento.. Mi sembrava che.. Qui non c’era un muro?!> sussurro sbalordita, fissando un corridoio apparso dal nulla dove prima c’era la parete illuminata dalla mia torcia. Mi volto con l’intenzione di correre via, verso la porta, ma sbatto contro.. <IL MURO!>. Ecco dov’era finito! Si era.. Spostato?! “Adesso da dove proseguo? L’unica via è questo corridoio.. Sembra una specie di via che porta a un labirinto, se mi perdo sono fritta! Ma d’altronde.. Anche se resto qui sono fritta! Quindi tanto vale tentare!”. Corro nell’unica direzione possibile e mi ritrovo in una stanzetta buia che assomiglia a un salotto. Ci sono almeno cinque quadri su ogni parete, un grande lampadario acceso, due poltrone rosse affiancate e un vecchio televisore. Sembra una stanza che risale al novecento.. Tra l’altro lo stiamo studiando proprio in questi giorni, quel periodo! Beh, è normale che sia così.. Qui ci hanno abitato centinaia di anni fa. Mi sento leggermente più a mio agio, anche perché il panorama adesso assomiglia alla casa di mia nonna, ovviamente togliendo il fatto che questo è un castello vero e proprio e che è su due piani, non come la vecchia cascina della nonna Iris. Osservo il tappeto: sembra posizionato proprio al centro della stanza, non un millimetro più a destra o a sinistra. “Erano tipi precisi..” penso, posando lo sguardo su una grande libreria, su cui ci saranno almeno un migliaio di libri vecchi, alcuni ammuffiti o ingialliti. Almeno la metà sembra composta tutta da “La Divina Commedia” da quanto sono spessi quei volumi! Mi avvicino e leggo un titolo a caso: “La Casa Stregata: le verità e le bugie”. Ironia della sorte.

<MI SENTIIIIIIIIIIIIIIIIIITE??> io non posso saperlo, ma dall’altra parte del castello sono rinchiuse Elisa e Samantha. Si sono ritrovate in soffitta, una buia, polverosa soffitta, abitata da ragnetti e topi. Non poteva esserci stanza peggiore, per Samantha! Odia tutti gli animali che assomigliano, anche solo lontanamente, a insetti o molluschi. Per non parlare degli aracnidi! Se ne vede uno è capace di svenire! Decidono di mantenere la calma e di continuare a chiamare rinforzi con il walkie talkie, perché di porte non ve n’è traccia.

C’è qualcun altro intento a far funzionare il walkie talkie. E’ Erica, chiusa al piano superiore nella stanza esattamente sopra alla mia, ma non sento alcun rumore di passi o nessun grido, come invece sarebbe logico udire. Più precisamente è in una camera da letto. C’è una scrivania alta all’incirca un metro, con sopra mille oggettini diversi. Sembra un bazar! Fermagli, carillon, matite, libricini, un blocco ingiallito, qualche spilla, bottoni, una piuma d’oca, un barattolino con una sostanza nera (probabilmente inchiostro vecchio centinaia di anni..) e numerose altre cose. Probabilmente, se non fosse stata impaurita e sola, si sarebbe incantata nell’osservare quel bellissimo “mercatino”. Lei adora gli oggetti, ha un sacco di collezioni, alcune molto ricche che lei considera tesori, che fanno invidia ai negozi più forniti!

Intanto Kevin e Roberto sono rimasti insieme. Sono tornati in giardino e la casa e scomparsa sotto ai loro occhi, nello stesso istante in cui io mi sono accorta di essere da sola. <Che cosa ci facciamo di nuovo qui? E dove sono le ragazze?> domanda immediatamente Kevin. <Non lo so.. C’è stato una specie di lampo accecante, poi mi sono ritrovato qui, come del resto tu..> risponde semplicemente Roberto, scrollando le spalle.

Ammiro, rapita, ogni singolo libro. Sono proprio tantissimi! Vorrei sedermi su una poltrona e leggerli tutti, uno ad uno. Quando ho imparato a leggere e andavo a casa di nonna Iris, sceglievo sempre un libro dalla sua vastissima raccolta di volumi di tutti i generi e mi esercitavo. Quanto mi piace leggere! Adesso, però, non c’è tempo. Corro verso l’uscita e vedo, davanti a me, una lunghissima scala a chiocciola. La salgo cautamente, avvolta da scricchiolii sinistri per ogni passo fatto e raggiungo il piano superiore. E’ solo allora che sento sia la voce di Samantha, che quella di Elisa, di Erica e quella dei ragazzi. <Kevin e Roberto a ragazze! Ci sentite? Passo!> gracchiava il walkie talkie. <Io vi sento!> rispondo, felice di avere un contatto con loro. <Anche io!> rispondono in coro le ragazze. <Dove siete? Noi di nuovo in giardino, non sappiamo come ci siamo finiti. Passo.> avverte Roberto. <Io sono alla fine delle scale a chiocciola, vale a dire all’inizio del secondo piano..> comunico. <Non saprei.. Credo di essere al secondo piano anche io, ma non ho il coraggio di guardare alla finestra per confermarvelo!> ammette Erica. <Noi siamo chiuse in soffitta! AIUTO, c’è un ragnoooo!!> urla Samantha, cedendo il walkie talkie a Elisa e correndo a rintanarsi dentro a una specie di scatolone. Mi scappa un risolino, che contagia immediatamente gli altri, perfino la “temeraria” Samantha. <Arrivo, ragazze! Passo e chiudo.> avverto, mettendo il walkie talkie in tasca e dirigendomi verso una porta a caso. Ne apro una e, fortunatamente, è quella giusta: Erica mi abbraccia come se fossi un pompiere che porta via una ragazza ferita da una casa incendiata e mi chiede come ho fatto a trovarla. <Che domande.. Ho aperto la porta e..> non riesco a finire la frase. Non c’è più alcuna porta! Non esiste più la stanza nella quale, un momento prima, eravamo! Adesso c’è solo una lunga parete e, in fondo, una scala che porta alla soffitta.

<Ok, arriviamo anche noi! Passo e chiudo!> dice Roberto, buttandosi immediatamente verso la porta. <Stiamo calmi, magari c’è qualche altra trappola..> Kevin non è tranquillo, ma decide che non può lasciarci sole, così affronta nuovamente questa stramba casa stregata.

<NOEMI! ERICA! Che bello vedervi!> siamo in soffitta e si ripete la scena: Samantha mi butta le braccia al collo, manco fossi un’eroina. <Dai, stai calma!> le dico infatti, sorridendole e osservando la sua carnagione che, lentamente, torna del suo colore originale. <Prima era bianca come un lenzuolo, soprattutto quando ha scoperto che ci sono dei ragni..> mi sussurra Elisa, guardando teneramente la nostra amica. <Usciamo di qui, prima che ci siano altre sorprese!> interrompe Erica, ma è troppo tardi: la porta dalla quale io e lei eravamo entrate è nuovamente scomparsa, imprigionandoci lì. <Oh, meraviglioso..> sussurro, in preda a una crisi nervosa.

<Ho sentito un rumore strano..> dice intanto Roberto, riferendosi al sinistro cigolio della porta scomparsa. <Anche io, ma non ho capito cos’era.. Boh, forse un topolino!> taglia corto Kevin, salendo le scale a chioccola per raggiungere la soffitta. <Hem.. Le ragazze non avevano parlato di QUESTO.. Vero?!> la voce del ragazzo, che ha preceduto Roberto, è tremolante. <Che cosa?> chiede l’amico. Ma non c’è bisogno che dica niente. Appena Roberto gli è accanto e vede lo strano e spettrale spettacolo diventa bianco di paura. C’è un lunghissimo corridoio con almeno cinque lampadari che vanno su e giù, ripetutamente, come in una strana danza. In più le porte, situate alternativamente a destra o a sinistra, sbattono e cigolano. Una risata agghiacciante non dà loro il tempo di scegliere se proseguire o scappare a gambe levate. Si ritrovano direttamente in soffitta, accanto alle amiche. <Ma come..> inizio io, vedendoli apparire alla mia destra. Kevin scrolla le spalle e Roberto alza le mani, segni che fanno immediatamente capire che loro non ne sanno più di noi.

<Ok, di qui non si esce.. Che si fa?> domanda Erica, avvicinandosi cautamente alla finestra. Sotto vede il vuoto abissale: solo nebbia. <Forse se legassimo la corda a qualcosa e scendessimo dalla finestra..> ipotizza Roberto, ma a me non pare una grande idea. <Impossibile, per due motivi: primo, la corda non è tanto lunga da arrivare fino a terra (o anche solo a una misura da cui si possa saltare). Secondo.. Non sono brava ad arrampicarmi sulla corda! E che io sappia neanche loro..> termino, indicando le mie amiche. Queste ultime annuiscono.

Decidiamo di aspettare: qualcosa dovrà pur succedere! Infatti, appena dieci o forse quindici minuti dopo, sentiamo un’altra risata, simile a quella udita da Roberto e Kevin. Questa volta, però, ha un suono più roco.. La voce sembra maschile. <Chi va là?> chiedo, con voce tremolante.

<Perché siete venuti in questo castello?> domanda qualcuno, questa volta una voce femminile.

<Non volevamo disturbare nessuno.. Credevamo fosse disabitato e..> azzarda Samantha, ma l’uomo la interrompe. <Non è disabitato! Insomma.. Non esattamente.> mormora, infatti.

D’un tratto sentiamo qualcuno singhiozzare. <Siamo gli spettri della coppia che, un tempo, ci viveva.> spiega la donna, tra una lacrima invisibile e l’altra. Appena sento questa notizia mi vengono i brividi. <Che cosa è accaduto?> domando. L’uomo fa un respiro profondo, poi una luce argentata investe un angolo della stanza e appaiono due corpi, apparentemente normali. <Ecco, questi eravamo noi più di cento anni fa..> rivela la donna. Erano bellissimi e lei portava lo stesso gilet del giorno in cui è scomparsa (o almeno credo.. È rosso e ha, su un fianco, due o tre fili tirati..).

Siamo spaventati ma allo stesso tempo affascinati. Ci sediamo per terra, in silenzio, ad aspettare tutto il racconto. <La verità è che noi siamo sempre stata una piccola famiglia molto particolare. Non credevamo particolarmente alle leggende, ma ci sono sempre piaciute. Così, appena abbiamo saputo che su questo castello circolavano voci strane (maledizioni e spiritelli, per di più) siamo corsi a comprarlo. E’ stato il più grosso errore della nostra vita. Una maledizione c’era davvero. Eravamo obbligati ad uscire a una determinata ora e rientrare ad un’altra, senza poi poter più mettere naso fuori. Se tardavamo di un minuto.. Allora per noi sarebbe finita. Tra l’altro qui ci sono tutti gli spiriti delle persone che, prima di noi, hanno voluto venire ad abitare qui. Alcuni di loro sono malvagi e, due in particolare, si divertono a fare scherzi sciocchi ai ragazzini come voi che, spinti dalla curiosità, vengono a vedere che cosa si nasconde in questo castello. Ma dovete stare attenti! Se rimanete qui più di ventiquattro ore, farete la nostra stessa fine e sarete costretti a rispettare i nostri stessi orari per tutta la vita! Anche dopo la vostra morte, naturale o non, sarete per sempre rinchiusi qui dentro.> racconta l’uomo. <E’ orribile! Continuate, cos’è successo di preciso quel giorno?> chiede Elisa. <Beh.. Quel giorno ho avuto la sciocca idea di raccogliere, lungo la strada, una mela da quell’albero. Già, un tempo era rigoglioso e dava buonissimi frutti, non come adesso che è vecchio e rinsecchito. Non l’avessi mai fatto. Sono rimasta impigliata lì e, nonostante tutti i nostri sforzi, non siamo riusciti a liberare il mio gilet. Ecco com’è andata.> termina sconsolata la donna, sul punto di rimettersi a piangere. <E’ una storia tristissima. Non possiamo fare nulla per voi?> chiedo, sperando con tutto il cuore che la risposta sia “si”. <Veramente.. Una cosa potreste farla! Sareste davvero gentili e vi saremmo eternamente riconoscenti!> si illumina l’uomo.

<Se riusciamo con grande piacere!> accetta per tutti Kevin.

<Innanzitutto dovete uscire da questo castello, ma non sarà un problema: possiamo aiutarvi noi. Poi dovete trovare il modo, entro le 12:00, di tagliare via, comprese le radici, l’albero in cui mi sono impigliata. Se riuscirete in questa impresa, saremo tutti liberi di uscire di qui. Alcuni che sono morti per colpa di questa maledizione, come noi, potranno tornare a vivere. Altri che sono diventati spettri per altre ragioni potranno, finalmente, riscoprire la libertà. Ma dovete fare in fretta: forse non ve ne siete accorti, ma è passato molto tempo da quando siete entrati in questo castello. Sono già le 11:00!> esclama la donna. Noi cinque non possiamo credere alle nostre orecchie. Com’è possibile? <Beh, adesso uscite da quella porta e cercate un modo per distruggere l’albero!> termina l’uomo, indicando una piccola porticina appena apparsa. <Certo!> esclamiamo in coro, colmi di gioia. Non solo possiamo uscire, ma abbiamo anche il modo di aiutare quelle povere persone.

<Credi che ce la faranno? Molti hanno già tentato e altri, dopo questa promessa, sono fuggiti senza neanche provarci..> ricorda a capo chino la donna. <Loro mi sembrano ottimi ragazzi. Vedrai, è la volta buona!> la rassicura il marito, abbracciandola.

<Siamo fuori!> esulto, correndo verso il mondo reale. Adesso, intorno a noi non c’è più nebbia ma un bel sole caldo che sta lentamente sciogliendo la neve. Ci fermiamo tutt’intorno all’albero. <Sembra più secco del solito..> commenta Samantha, toccando un rametto. <Come facciamo a toglierlo? Poi, le radici.. È impossibile!> commenta Roberto, osservandolo come se lo vedesse per la prima volta. <No, non è impossibile.. Ma è difficile!> lo correggo io, abbozzando un sorriso.

<Chissà com’è andato il compito in classe..> mormora invece Elisa, distraendosi un attimo. <Ma ti sembra il momento di pensare alla scuola?!> la rimprovera Erica, mettendosi le mani sui fianchi.

<ELISA, SEI UN GENIO!> esclamo, invece, io. <Hem.. Grazie.. Perché?> chiede lei, confusa. <Su che argomento era il compito di scienze?> domando. <Beh.. Sulla natura.> risponde Roberto. <Esattamente. E abbiamo studiato che gli alberi, per vivere, hanno bisogno della fotosintesi clorofilliana. Che cosa serve per far sì che la fotosintesi avvenga?> chiedo ancora. <Serve la luce del sole e la.. LA LINFA!> esclama Samantha, che ha capito dove voglio arrivare. <Giusto! Per cui.. Cosa succederà se priviamo questo albero della linfa?> continuo, sorridendo. <L’albero morirà! Certo! E’ già secco, quindi non ci vorrà molto!> termina Kevin, raggiante. <Mettiamoci al lavoro! Dobbiamo forare in qualche modo le radici, così acqua e sali minerali non passeranno più e la linfa grezza non potrà salire verso il tronco!> spiega Erica, mettendosi a scavare nella neve a mani nude. <Ma dobbiamo fare in fretta! Manca un quarto d’ora!> avvisa Elisa, aiutando l’amica insieme a tutti noi. Scaviamo freneticamente e, finalmente, troviamo la terra. <Coraggio, non deve mancare molto!> aggiungo, quando ormai mancano si e no cinque minuti. E’ una vera e propria corsa contro il tempo, ma sappiamo che abbiamo le carte per vincerla. <ECCOLE!> esultiamo, toccando qualcosa di duro. <Non sarà una passeggiata farci un buco! Sono ancora belle spesse!> commenta Samantha. <Aspetta.. La corda! Potremo legare le radici e poi tirare, tutti insieme, l’altro capo! Così si dovrebbe sradicare dal terreno!> propongo. Siamo tutti d’accordo, così leghiamo velocemente la corda a tre o quattro radici, facendo nodi belli spessi e tiriamo con tutte le nostre forze. Tiriamo, tiriamo, tiriamo e tiriamo.. Poi sentiamo un “CRICK”, simile a un vaso di cristallo che và in frantumi. Non crediamo ai nostri occhi: l’albero sta… andando in pezzi! Proprio la fine che fanno, a volte, i piatti di casa mia..

<Ce l’abbiamo fatta!!!> gridiamo, colmi di gioia. Piano piano la nebbia intorno al castello si dirada e una folla di gente esce, urlante, dal castello. Altrettanti spiriti, liberi da quello che sembrava un eterno maleficio, volano di qua e di la, come impazziti. <GRAZIE!> urlano tutti in coro, mentre assaporano il piacere di essere di nuovo vivi.

<Noemi, Noemi!> una voce mi chiama, ma non capisco da dove viene.

Apro gli occhi. Sono sdraiata in camera mia, sul mio letto. “No.. Non può essere..” penso, sbarrando gli occhi e sedendomi di scatto. <Sveglia, dormigliona! E’ ora di prepararti per la scuola!> mi annuncia mia madre dalla cucina. <Si, arrivo!> rispondo. “No, sono convinta che non sia stato un sogno.. Era troppo reale!” continuo a ripetermi, ma per quanto cerchi segni di realtà in quella bizzarra situazione, non ne trovo. Eppure, se solo mi affacciassi alla finestra, noterei non solo che il castello non è più avvolto nella nebbia e che il famoso albero rinsecchito non c’è più.. Ma anche che c’è una bellissima coppia che, ridendo, osserva compiaciuta tutta la scena.

Gaia Bigoni

LA CASA DEI MISTERI di Francesca Arcangeli. Primo livello Bambini. Corso di scrittura on line

LA  CASA  DEI  MISTERI di Francesca Arcangeli

 

Primo Livello Bambini

Corso di Scrittura on-line

 

La chiamavano la casa dei misteri ed era disabitata da molti, lunghissimi anni.
Era sempre stata nota per l’orrenda fine dei suoi proprietari. Era una storia di cui i vecchi abitanti del paesino amavano ancora parlare per impaurire i piccoli e curiosi bambini della zona. La storia racconta che una volta lì ci viveva un duca, con sua moglie e due figli. Poi, una mattina cupa e scura, il giardiniere trovò la moglie e i figli del duca assassinati in salotto: il figlio maggiore quasi incenerito nel camino, la madre stesa sul divano e il più piccolo dei due figli appeso al soffitto. Nessuno sa cosa successe veramente quella notte ma una cosa fu certa: del duca neanche traccia. Nessuno però si stupì più di tanto dato il fatto che la famiglia, recentemente, aveva avvertito strane presenze come mobili che si spostano, oggetti che scompaiono e ricompaiono all’improvviso nei posti più insensati e il solito vento caldo che spostava le tende anche a finestre chiuse. La famiglia insomma aveva affermato che la casa era infestata da spiriti malvagi….

Era una fredda mattina di fine ottobre, l’aria era pesante e un leggero venticello pungeva il viso. Avevo sentito tutte le storie su quell’orribile casa ed ero decisa a scoprire cosa si nascondeva là dentro. Era una villetta isolata posta in cima ad una collina, piuttosto diroccata ma ancora visitabile e comunque ci sarei entrata lo stesso anche se il tetto potesse crollare da un momento all’altro. Il muro era scrostato e pieno di edera e in alcuni punti c’erano dei buchi grandi quanto un palmo di mano che la rendevano ancora più inaffidabile agli occhi della gente. I quattro lati della casa erano rivestiti da pietre di diversa grandezza e spessore che, al tramonto, creavano simpatici giochi d’ombra sull’erba verde e dorata tappezzata, qua e là, da un po’di ghiaia bianca e diverse piccole macerie che la casa doveva aver perso con gli anni. Accanto aveva una piccola pianta di uva rossa che si era arrampicata mezza su capanno di legno a cui mancava una parete e dove dentro, una volta, tenevano gli attrezzi da giardinaggio. Infatti all’interno c’erano ancora un vecchio tagliaerba con diversi fili che spuntavano dal manico e si erano ricoperti di polvere e, su un tavolo di legno forato dalle tarme, c’era un antico macete arrugginito che aveva perso ormai tutto il pezzo di lama affilato e, dato che il manico era mezzo rotto, assomigliava di più a un boomerang di ferro. Al lato destro della piccola vigna cresciuta senza riguardi c’era un pozzo fatto di rocce e cemento che aveva sopra un piccolo archetto in ferro battuto avvolto dall’edera secca. Sporgendosi non si riusciva a vedere il fondo infatti si scorgeva soltanto una massa melmosa sotto quelli che sembravano cinque metri d’acqua stagnante. Accanto scorreva un piccolo ruscello proveniente dalla montagna che portava acqua gelida ad un minuscolo laghetto dove sguazzavano piccoli pesci rosso rubino e giallo ocra anche se erano tutti ricoperti di sporcizia e inquinati. Una mal ridotta staccionata di legno con diverse assi mancanti e di un colore marroncino chiaro scolorito dal tempo e dalle intemperie, circondava il tutto rendendo il posto, se possibile, ancora più malandato. Dietro la casa c’era un giardino dall’erba mal curata e un enorme quercia secolare con foglie gialle e quasi spoglia. La sua corteccia era ruvida e in alcuni punti scavata dal tempo. Doveva essere lì da molto più tempo della casa perché era alta più o meno quattro metri e con lunghi rami grossi e pesanti. Una piccola stradina di sassi portava ad una poco rassicurante porta con i vetri rotti. La tintura viola era scolorita e al suo posto era comparso il legno forato; << non entrare>> diceva una vocina maligna i un sussurro come per mettermi paura, << sei arrivata fin qui, che senso ha tornare indietro? Entra!>> questa voce era più calda e rassicurante e così raccolsi tutto il coraggio che avevo in corpo, girai la vecchia maniglia di ferro arrugginito e, con un cigolio inquietante, entrai.
Davanti a me c’era un piccolo corridoio fatto di tavole di legno. Esse erano di un marrone terra sbiadito e corrose dalle tarme e dal tempo, umide e rotte. Davanti a me c’era una scala a chiocciola con il porta mano in ferro scolorito dalla sua tintura bianca originale. Un vecchio tappeto logoro e sporco le saliva tutte accompagnato dai suoi buchi. Al centro, proprio sopra di me, i resti di un vecchio lampadario fatto a fiore con diverse striscioline di diamanti che pendevano sul punto di staccarsi completamente. Dietro la scala a chiocciola c’era una porta bianca con diverse macchie ed una maniglia arrugginita che un tempo era tinta d’oro. Decisi di iniziare dal piano terra e così aprì quella porta. Era una vecchio bagno. Il wc era rotto e scheggiato ma un tempo doveva essere di una ceramica costosa. C’era un antico lavello di marmo bianco, sporco ma ancora intero. I pomelli erano ricoperti di polvere e arrugginiti tanto che non si potevano più muovere. Sul pavimento c’erano diverse piastrelle rotte e di alcune non ce n’era proprio traccia in modo da mettere il suolo terroso in bella vista. Una piccola doccia era davanti al wc ma i vetri che la contenevano erano andati in frantumi e mancavano diverse mensole porta-sapone. Richiusi la porta e decisi di oltrepassare l’arco accanto al lampadario. Mi ritrovai in salotto. Era una stanza grande ed abbastanza accogliente. I muri erano di un colore giallo acceso ma scolorito e diverse lampade ad olio erano poste su dei tavolini di legno rotondi e corrosi posti ai lati di un bel divano arancione con della gommapiuma che spuntava dai braccioli e dei buchi nell’involucro ruvido. Davanti c’era una camino ben lavorato di pietre scure che spiccava per il suo comignolo a punta fatto di pietre arancioni. Era però scalfito, rotto e coperto da un centimetro di polvere (come tutto in quella casa) che lo rendeva inquietante e isolato. Al centro, sopra un bel pavimento fatto di tavole di legno logore e sudice, si trovava un tappeto azzurro pieno di buchi e con i disegni dorati scoloriti dal tempo. Dal soffitto pendeva un enorme lampadario di cristallo a forma rotonda. Le lampadine erano rotte ma la maggior parte era caduta a terra formando piccoli pezzi di vetro taglienti che riflettevano la luce del sole. Passando per una vecchia porta di cui era rimasto solo qualche pezzo di legno qua e là, c’era la cucina. I fornelli erano rotti e minuscoli pezzi di ferro arrugginito erano davanti. Doveva aver preso fuoco perché l’interno era nero e pieno di fuliggine e diverse pentole erano state cappottate sopra anche queste completamente nere. Il tavolo era bucato dalle tarme e al centro della cucina. I gambi erano lavorati finemente anche se adesso ne mancava uno che era sdraiato sul vecchio pavimento freddo e umido di marmo nero. Sopra un vecchio lavandino rotto senza un pomello d’argento c’era una credenza per i piatti, anche se dentro era rimasto solo un bicchiere di vetro sporco e macchiato. Accanto si trovava un cofanetto bianco e rotto il cui sportello si muoveva ritmicamente. Un momento: lo sportello si muoveva! Tornai a guardarlo e questo si fermò di colpo. Poi iniziò ad accendersi e spengersi una lampada ad olio vicino ad un vecchi mobile di legno di noce che già traballava. D’un tratto ogni cosa si fermò e iniziò a fare freddo, il freddo aumentava. La brina si stava posando sul vecchio frigorifero rotto. Poi un fischio assordante riempì la stanza e a questo punto volevo solo scappare. Iniziai a correre versò la scala a chiocciola e dalla fretta di salirla inciampai in due gradini rotti finendo con una gamba incastrata mentre con una mano mi reggevo al tappeto. Arrivata in cima il fischio cessò. Che cosa poteva essere stato? Una cosa era certa: quella casa non era normale. Prima finivo di ispezionarla meglio era!
mi trovavo in un lungo corridoio con il soffitto arrotondato e pieno di disegni che raffiguravano angeli nel cielo coperti di nastri e fiocchi ma era anche tappezzato di porte. Davanti ad ognuna c’era una lastra di legno più chiara di quelle con cui era ricoperto il pavimento che serviva forse come piccolo scalino. Entrai nella prima: era una camera con il letto a baldacchino. Le lenzuola erano di un color violetta chiaro che stonava alquanto con il muro giallo canarino. I cuscini erano sparsi sul vecchio pavimento bucato e i pezzi di vetro del bellissimo lampadario e delle lanterne riflettevano la luce del sole che passava dalla finestra e che si stava affievolendo sempre di più. dovevo fare in fretta era già inquietante stare lì di giorno, figuriamoci di notte. Guardai per l’ultima voltai magnifici comodini di legno di quercia a cui mancavano diversi gambi e mi chiusi la porta alle spalle. Passai alla seconda stanza: era più piccola e il letto a una piazza aveva le coperte azzurrine e i muri blu notte, il tutto, naturalmente, rotto e sporco. Diverse mensole erano piene di macchinine rotte e bambole aperte a metà. Un piccolo comodino regnava sovrano accanto al letto e sopra c’era un lampada bianca. Le finestre erano assenti come i cuscini e, su una scrivania vecchia e logora, c’era un mappamondo con accanto diverse penne senza inchiostro. Un vecchio lampadario giaceva a terra con tutte le perline sparse per la stanza. Lasciai quella stanza e mi diressi verso la terza e ultima porta. Dentro c’era un box con le coperte giallo ocra e i muri tinti di un azzurro confetto davano l’idea che quella fosse una stanza per bambini. Alla destra del letto si trovava un vecchio cavallino di legno e una confezione di caramelle di cui era rimasta solo la carta. Una piccola lanterna penzolava dal soffitto e sembrava sul punto di cadere da un momento all’altro. Una minuscola finestra rifletteva la luce del tramonto dal cima della stanza quadrata. Decisi che la gita in quella casa infestata era finita ma quando feci per uscire si udì un botto secco e tra tantissimo polverume mi trovai davanti una logora scala ridotta proprio male! Aveva quasi tutti i gradini mancanti e, ad ogni passo, produceva un inquietante cigolio come se dovesse schiantarsi da un momento all’altro. Decisi di salirla e mi resi conto che portava ad una soffitta segreta. Dentro c’era di tutto: una vecchia bici senza manubrio, cuscini polverosi, mensole porta-sapone rotte e tantissimi scatoloni impolverati. La luce filtrava da una piccola finestrella in cima al soffitto e bisognava abbassarsi per poter camminare. Poi vidi dei mattoni rialzati come se fossero stati messia a coprire qualcosa e, con un martello dal manico di ferro, cominciai a sfondarli. Penso sia stata la cosa più orrenda che abbia visto in vita mia: un grande scheletro dalle ossa rotte e ingiallite vestito con una cravatta rotta e una giacca blu come i pantaloni tutto pieno di buchi, logoro e sudicio. Non avevo la forza di urlare, ero troppo spaventata. Poi le vidi: quattro ombre che avanzavano verso di me, un uomo, una donna e due bambini uno dei quali era mezzo incenerito. L’uomo parlo con voce possente << non saresti dovuta venire qui, ora scappa finché sei in tempo e non raccontare a nessuno di questa casa e degli spiriti che la infestano>>. Non me lo feci ripetere due volte: iniziai a correre, scesi la scala mentre un fischio assordante riempiva la casa e tutto intorno a me iniziò a muoversi: le porte sbattevano, i lampadari traballavano ma non avevo tempo per stare a guardare. Scesi la seconda scala a chiocciola, oltrepassai il laghetto, il pozzo, la vite e la vecchia staccionata. Poi, ormai lontana da tutto ciò, una voce mi entrò negli orecchi: << tu devi sapere, sapere la vera storia. Il conte assassinò sua moglie e i suoi figli e poi si uccise da solo. Nascose da morto il suo corpo in soffitta e ora vive e vivrà per sempre con la sua famiglia. Ora sai ma non dire a nessuno ciò che hai visto…>>. La voce scomparve com’era arrivata. Tornai a casa e cercai di dimenticare tutto ma io, solo io sapevo la verità e nessuno avrebbe potuto dire che io fossi pazza perché io avevo visto, io avevo sentito.
La chiamavano la casa dei misteri e, alla luce dei nuovi fatti, era abitata da molti, lunghissimi anni!

LA CASA DEI MISTERI di Vittoria Batavia ( i racconti dei corsi on line)

LA CASA DEI MISTERI di Vittoria Batavia

Corso Bambini – Primo Livello

Elize sbatté con furia l’anta dell’armadietto, che protestò cigolando.
“Un giorno o l’altro si rompe“, esclamò Agnes, la sua graziosa amica che se ne stava due armadietti più in là.
Elize proprio non la ascoltò. Era colpa sua, e lo sapeva, se le avevano rifilato l’ennesimo cinque di storia, ma…la prof interrogava sempre lei! E poi ci si mettevano anche Kate, Stefania e il loro seguito ghignante: Elize proprio non le sopportava.
Proprio mentre ci pensava, le due Miss Popolarità e la sorellina di Kate, Beth, passarono nel corridoio con aria di superiorità, portandosi dietro un’ondata di quel loro nauseante profumo Sensuality. Elize fece in fretta, afferrò i libri di francese e algebra e intercettò la camminata da pop star delle due, frenandone l’avanzamento nel corridoio.
“Che vuoi?”, chiese Stefania scostandosi con finta noncuranza una ciocca bionda dal viso.
A Elly era venuta un’idea, non ne poteva più dei soprusi di quelle due, e poi era una stupidaggine da bambini, suo fratello ne parlava da tempo. “Vorrei proporvi una cosuccia”, disse con lo stesso tono falso e mellifluo di Stefania, “ovvero andare nella vecchia casa Cronwell, vicino al bosco. Avete il coraggio di…farci una visitina?”.
Tutti quelli che stavano passando nel corridoio si fermarono ad ascoltare, avevano colto tutti le parole di Elize che, dal canto suo, si trovò con un’aria soddisfatta dipinta in volto: Stefania era impallidita, e Kate le strattonava una manica come una bambina: “Dille di sì, Stefy, dille di sì!”, Stefania riprese colore e un’espressione strafottente e presuntuosa, “certo, che roba da bambini…ti sei rimessa a sentire le storie di fantasmi dalla mammina, Elize?” – poi fece una pausa “ad effetto”, falsa e impostata come nei film, e proseguì, “domani pomeriggio, alle sei, bambinetta. E se te la fai sotto portati dietro l’amica”. Poi rise sprezzante insieme a Kate, mentre si allontanavano nel corridoio, il rumore dei tacchi più sonoro che mai in mezzo alla calca di studenti ammutolita.

***

Elize e Agnes arrivarono qualche minuto dopo Stefania e Kate, seguite da una folla di ragazzi della scuola.
Si fermarono tutti ai piedi della collina: gli altri ragazzi perché non avevano il coraggio di proseguire, le quattro ragazze perché dovevano decidersi sulle regole della sfida. Elize e Agnes si fermarono davanti alle altre due ragazze. “Orologi sincronizzati: mezz’ora là dentro e poi usciamo “, disse Stefania, “sempre che voi due bambolotte non ve la facciate sotto prima”. E giù a sghignazzare con Kate.
Elly, però, non aveva nessuna voglia di scherzare: “Stefania, fai veramente ridere e la sfida che hai proposto è da poppanti. Io dico un’ora, a meno che dopo un quarto del tempo voi due non siate già schizzate fuori urlando come oche”.
“E un’ora sia”, esclam Kate, “vince chi resiste per tutto il tempo dentro, ma per noi sarà veramente un giochetto”. Elize ficcò le mani nella tasca del giaccone e seguì Agnes su per il dolce pendio della collina.
La casa dei misteri, così come la chiamavano tutti, era in cima, sul punto più alto. Aveva un aspetto inquietante già da fuori: non sembrava vecchia e decrepita ma appena costruita e abbandonata. Le finestre erano sbarrate con assi marce e chiodi arrugginiti, ma i cardini erano argentati e lucidi. Il portone di legno dimostrava tutti i suoi secoli, però incuteva ancora timore col battacchio a forma di lupo.
“Ci sono cento stanze e cinquanta scaloni giganti, con una botola a ogni gradino che può farti sprofondare negli abissi”, pensò Elly con un groppo alla gola, fissando la casa e ricordando le parole del fratello – nelle camere i fantasmi dei vecchi abitanti dormono nei letti – “Sono stupidaggini, roba da bambini. Stefania e Kate perderanno”, si rassicurò cercando di non avere paura. Poi, mano nella mano con Agnes, spinse il portone che si aprì emettendo il rumore più sinistro e spaventoso che essere umano avesse mai udito.
Elly e Aggy balzarono indietro spaventate, mentre Stefania e Kate se la ridevano contente.
Appeso su un gancio sulla parte superiore della soglia, c’era uno spettrale fantoccio fantasma. Era un vecchio lenzuolo dipinto con gli acrilici, uno scherzo di quelle due vipere. Elly sbuffò e rise: “E’ tutto quello che sapete fare?”. Kate si girò e fece una linguaccia, poi entrarono e richiusero il portone vedendo l’ultimo sbuffo di luce scomparire dietro il legno scuro.
“Agnes, ci sei?”, chiese Elize cinque secondi dopo.
“Sì, sono qui…c’è pochissima luce”, sussurrò Agnes spiegando che le altre due erano andate verso destra.
“Allora noi prendiamo quest’altro corridoio. Se troviamo una stanza dove poterci sedere ci fermiamo lì…seguimi”, Elize era decisa.
Si presero per mano e mossero qualche passo nel corridoio. La casa sapeva di muffa e sapone rancido, un odore dolciastro e vanigliato da vomito. Le assi del pavimento scricchiolavano ad ogni minimo respiro, e Elly si sforzò di non pensare ai topi. Aveva immaginato che quello fosse veramente un posto da bambini, ma non era così. Le veniva una voglia tremenda di urlare, urlare che voleva uscire di lì…ma sapeva di poterlo fare: Kate e Stefania avrebbero vinto.
Si trovarono quasi subito davanti a una scala mezza marcita, con un tappeto rosso bordato d’oro consunto e mangiato dalle tarme. Un tempo doveva essere stato bellissimo, rosso fuoco e splendente, ma ora era poco più di uno straccio appiccicato al legno. Elize sfiorò il mancorrente con mano incerta, quello vacillò e Elize si sentì sollevata in aria: aprì gli occhi e in un mare di luce accecante e violetta, vide in un lampo l’antico splendore della maestosa scalinata: il tappeto lustro e luccicante, l’oro dei bordi perfettamente coordinato.
Il mancorrente in legno era talmente lucido da sembrare marmo, e un lampadario di meraviglia indescrivibile troneggiava in cima più abbagliante di una palla da discoteca. Elize allungò una mano, ipnotizzata, ma crollò subito a terra, contorcendosi sul pavimento. Quando si mise a sedere, cercò la mano di Agnes accanto alla sua: “Cosa…cosa è successo? Hai visto anche tu?”, esclamò allarmata. Ma Elly si accorse di non avere stretto la mano di Agnes, ma un pezzo di stoffa sul pavimento. Lo avvicinò il più possibile agli occhi, in modo di vederlo il meglio possibile. Era una stoffa scarlatta e lucida, come dell’acqua limpida e pulita in un mare di petrolio. Elly doveva averla strappata quando aveva allungato la mano, ma com’era possibile? Quella visione non era reale, solo un brutto gioco dell’immaginazione. Elize raccolse il pezzo di stoffa  e si alzò in piedi: magari Agnes aveva proseguito credendo che lei la seguisse, mentre era lì tra le sue fantasticherie…e, guardandolo bene, si accorse che in fondo quella stoffa non aveva niente di speciale. Era un po’ meno consunta di quella del tappeto, questo sì, ma dimostrava lo stesso una certa età.
Corse su per la scala e chiamò Agnes per un po’, poi, senza nemmeno pensarci, si fiondò dentro la prima porta che aveva di fronte e fece cadere per terra la pezza di tessuto che aveva in mano. Nello specchio enorme e antico di bronzo che le stava davanti era riflessa l’immagine di…Agnes! E appena si avvicinò, la figura trasparente di una ragazzina spuntò fuori dal muro. Aveva i capelli rossi e a boccoli, acconciati in modo perfetto, e un vestito verde polvere molto all’antica, ancora con la crinolina. Elize avrebbe voluto urlare, ma non ci riuscì perché si accorse che quella ragazzina era identica a lei!
“Chi sei?”, chiese, rivolta alla sua sosia.
”So che è difficile crederlo, ma io sono un fantasma…e tu sei la mia pro-pro-pro-pro-pro-pro nipote. Tu sola hai il permesso di entrare in questa casa, è per questo che ho fatto prigioniera lei. Ce ne sono altre due, vero?”, disse la ragazza-fantasma.
“Ammettiamo che io ti creda, anche perché faccio fatica a pensare che sia uno scherzo della mia immaginazione, tu fluttui! Comunque, come ti chiami?”, domando esterrefatta Elize.
“Il mio nome è  Elizabeth”,  rispose, “e tu devi credermi, è vero quello che dico. C’è una…cosa, legata a questa casa, ma io non posso occuparmene, sono segregata qua…ed aspettavo il momento in cui tu saresti venuta, per affidarti questo compito. Ma prima devi andartene, e anche in fretta: non sono l’unica che abita qui.”
“Libera Agnes!”, disse Elly con aria di sfida.
“Lo farò, antenata, ma tu devi promettermi che tornerai…ho bisogno di te!”, supplicò Elizabeth.
“Va bene, tornerò appena mi sarà possibile…ma tu potresti farmi un favore?”, e così dicendo bisbigliò all’orecchio del fantasma alcune parole.

***

Dopo alcuni minuti Agnes ricomparve come se nulla fosse successo. Assieme a Elize si era messa sulla soglia della casa, mentre Kate e Stefania correvano via gridando come pazze: il fantasma aveva fatto ciò che Elize aveva chiesto. Le aveva proprio terrorizzate.
Era dunque ovvio chi aveva vinto la sfida!
Elly diede il cinque ad Agnes e, girandosi verso l’interno, fece l’occhiolino alla sagoma appena visibile di Elizabeth sussurrando: ”Tornerò…”

Yinger e l’Antico Tomo di Teresa Di Gaetano (Corso Adulti – Secondo Livello)

Yinger e l’Antico Tomodi Teresa Di Gaetano

Corso Adulti – Secondo Livello

“Signora Aduial, Yinger, posso entrare?” si udì la voce di un ragazzo che Yinger riconobbe quasi subito, anche da dietro la porta: era Aless, il suo amico di infanzia.

Quando entrò la vide inginocchiata vicino a letto della nonna, in lacrime le teneva la mano.

“Yinger, cosa è accaduto?” chiese avvicinandosi e cingendole le spalle.

Lei lo scacciò seccata: “Và via – gli intimò – non ti riguarda!” di tutte le persone che avrebbe voluto vedere in quel terribile istante, Aless era l’ultima.

“Cosa è successo a tua nonna?” incalzò, posandole una mano sulla spalla.

Ma lei non rispondeva, a stento tratteneva i singhiozzi.

“Sta molto male” rispose con un filo di voce la ragazza.

Vedere Yinger in lacrime gli dilaniava l’anima e il cuore.

“Cosa posso fare per te?” disse inginocchiandosi, ma lei volse lo sguardo dell’altra parte.

“Non hai sentito cosa ti ho detto? Và via!” e riprese a singhiozzare.

Aless guardò attorno nella stanza, sentendosi inutile, si diresse verso la porta.

“Sappi che qualunque cosa tu abbia bisogno, io ci sarò” e uscì.

Mentre percorreva il piccolo corridoio della casa, Aless udì voci di bambini che correvano felici tra i vicoli. Rivide quando loro erano piccini e facevano le gare per salire sull’albero più grande della piazzetta della loro bella città Corallo d’avorio. Yinger era sempre stata più agile di lui e arrivava sempre per prima in cima.

Incerto posò la mano sulla maniglia. E il suo dolce profumo alla vaniglia buonissimo, gli penetrava l’anima. Si richiuse la porta dietro le spalle.

***

Nonna Aduial aprì un pochino gli occhi e poi con flebile voce bisbigliò: “Ti devo dire alcune cose, Yinger.”

La ragazza alzò lo sguardo verso la vecchia.

“Dimmi tutto, ti ascolto” si portò la mano dell’anziana sulla guancia in segno di affetto.

“E’ un segreto della nostra famiglia.” Iniziò a raccontare nonna Aduial.

Nel camino, nel frattempo, crepitava il fuoco.

“Io sono una maga. Da tre generazioni le donne della nostra famiglia lo sono. Tua nonna Aranel e prima ancora la tua bisnonna Alatariel avevano dentro il sacro fuoco della magia che ardeva nelle loro anime. Ma hanno conservato il loro segreto e lo hanno svelato alle loro figlie solo in punto di morte.”

Yinger a quelle terribili parole le strinse più forte la mano.

“Ed ora è giunto il momento di svelarti il mio segreto e il tuo che dovrai custodire fine alla fine dei tuoi giorni!” ebbe un rantolo ed Yinger si alzò di scatto dalla sedia.

“No… non ti preoccupare: è solo una fitta, passerà. Ho giusto il tempo di dirti quello che devi sapere.” Cercò di porsi a sedere, ed Yinger l’aiutò sistemandole il cuscino dietro le spalle.

“Se studierai apprenderai la forza dei quattro elementi: l’acqua, il fuoco, l’aria e la terra. Gli elementi, i quattro, sono tuoi alleati. Devi imparare a domarli al tuo volere.”

Yinger si stupì di quello che stava ascoltando e così annuì mentre le lacrime continuavano a scendere.

Per Yinger nonna Aduial era sempre stata una mamma, perché l’aveva allevata come una figlia.

“Nonna – cercò di rincuorarla – vedrai che ti riprenderai!”

“No! ormai è giunta la mia ora. Sono troppo vecchia per vivere, ma tu, nipote cara sei sempre stata la mia prediletta. E’ giusto che adesso conservi tu il segreto di famiglia. Vai allo scaffale di quel mobile ed apri il cassetto.”

Yinger fece quanto le stava dicendo l’anziana, così si diresse verso il comò ed aprì un cassetto. Il primo.

“Cosa vedi?”

“C’è un bastone” rispose incerta Yinger.

“Prendilo!” la esortò la vecchia.

Yinger lo afferrò e in quello stesso momento il bastone non solo si illuminò, ma si allungò. Il bastone terminava con una spirale con al centro un grande smeraldo di forma ovale.

“Che bello!” esclamò entusiasta.

“Questo è il mio bastone, adesso è tuo. Se dirai lucem comparirà oppure scomparirà.”

“Come… come fa a riapparire?”

“Una volta impugnato ormai ha preso la tua impronta. Non hai visto che si è illuminato?”

Nonna Aduial tossì forte.

“Questo vuol dire che se qualcun altro lo tocca, può portarmelo via?”

“Solo se è un mago come te,” rispose l’anziana con un po’ di affanno.

Lucem!” disse a voce alta Yinger e il bastone scomparve immediatamente.

“Vai verso quella libreria, ora” e le indicò la libreria addossata al muro, vicino alla finestra.

Yinger guardò i dorsi dei libri con curiosità.

“Prendi quello nel secondo scaffale, il secondo a destra.”

Yinger ubbidì. Il tomo si rivelò un po’ più grande di quello che dava a vedere messo in ordine nella libreria.

“Questo è l’Antico tomo della Biblioteca di Akyab. Da tre generazioni viene conservato nella nostra libreria. Il tuo compito è di portarlo… – e tossì un’altra volta – portarlo di nuovo là!”

“E perché mai?” domandò la ragazza.

“La città di Akyab vivrà un momento terribile, e solo un mago potente, se non potentissimo, può usare gli incantesimi del libro. Per la salvezza di questo popolo devi portargli il libro. Ho visto, infatti, cosa sarebbe accaduto senza quel libro!”

La nonna tacque. Chiuse gli occhi ed Yinger si avvicinò velocemente all’anziana, pensava che si era addormentata. Invece, la donna aprì gli occhi spalancandoli all’improvviso. Yinger la vide tremare.

“Non ho ancora finito,” sembrò supplicare con voce tremante.

“Yinger vai vicino al mio comò di nuovo. Proprio sopra, troverai uno specchio magico.”

La ragazza lo prese subito e ci si specchiò, mentre nonna Aduial continuava a parlare con voce rauca: ”Con questo potrai evocare la forza della luce. Basta che dirai Lux splendentis.”

Di nuovo l’anziana rantolò, gettò la testa all’indietro sul cuscino e con la bocca aperta respirò affannosamente.

“Nonna!” si gettò tra le sue braccia Yinger.

“La mia collana… prendi anche la mia collana. E’ un amuleto… avrai così il potere di evocare gli spiriti dei morti.”

L’afferrò per le braccia, come se volesse scacciarla. “Non puoi impedirmi di andarmene. Stai molto attenta. Devi ancora sapere che hai una sorellastra, il suo nome è Tinie. Lei farà di tutto per toglierti il Tomo antico, e poi perché ti considera responsabile della morte di vostra madre. Ma tu proteggilo anche con la tua stessa vita!”

Detto questo esalò, lasciando Yinger interdetta.

“Nonna!” esclamò a voce alta la ragazza.

Sua nonna, la sua cara nonna era morta! Yinger vide tutto il suo mondo crollare: che cosa avrebbe fatto senza di lei? Già non aveva più una madre, e adesso aveva perso quella che fino ad allora era stata come una madre per lei. Pianse calde lacrime.

In quel mentre entrò di nuovo Aless: aveva dimenticato il suo cappello ed era tornato per riprenderselo. Quando vide che Yinger singhiozzava, si avvicinò alla ragazza, con il cappello tra le mani.

“Le daremo degna sepoltura,” disse Aless.“Non ti preoccupare.”

Poi perse i sensi, il troppo dolore le aveva dato un senso di vertigine. Anche perché la sua vita d’ora in avanti senza la presenza di sua nonna sarebbe, infatti, stata completamente diversa.

***

Quando Yinger rinvenne si ritrovò nella sua stanza. Era a letto, con una coperta di sopra. Il fuoco crepitava nel camino che illuminava tenuemente la stanza. Seduto accanto a lei, sul letto, vi trovò Aless.

“Come ti senti?” le domandò preoccupato.

Lei sbatté le palpebre due volte prima di rispondergli:”Un pochino meglio. ”

“Domani seppelliremo tua nonna.”

Doveva ammetterlo a malincuore, però la vicinanza di Aless in quel momento la faceva sentire meno sola.

“Sì. Speriamo non piova,” disse guardando dalla finestra. La tendina era appena scostata e si intravvedeva il cielo non particolarmente limpido.

“Perché dici così?” le chiese il ragazzo.

“Mia nonna mi ha detto che quando piove e si seppellisce un morto poi in quel punto non nascerà più alcun albero. E nessuno si ricorderà del morto.”

“Oh!” esclamò sbalordito il mago. “Allora, sì… speriamo non piova.”

Yinger rimase alcuni istanti a fissare il cielo grigio, poi il soffitto. Sospirò.

“Devo partire,” disse tutto d’un fiato.

“E dove vuoi andare?” iniziò a preoccuparsi Aless.

“Ad Akyab. Mia nonna mi ha chiesto un favore prima di morire ed io le ho promesso che l’avrei fatto. Almeno… in cuor mio,” aggiunse la ragazza.

“Akyab? Così lontano? Perché mai?” domandò con curiosità Aless.

“Ma io non voglio partire,” ammise Yinger incurante della domanda del mago. “Voglio rimanere qui, in questa casa.”

“Cosa ti spinge, allora, a farlo?” incalzò il ragazzo.

“Devo portare l’Antico tomo alla Biblioteca di Akyab. Da questo dipenderà la salvezza della città. Mi domando, chissà perché proprio io!” e qui socchiuse gli occhi verdi.

“Se vuoi ti accompagno,” disse alzandosi in piedi. “Ma ora riposa un altro po’. Prendi questo, è una pozione per far addormentare.”

I boccoli neri di Yinger giacevano scomposti sul cuscino. Ad Aless venne il desiderio di accarezzarli, ma non lo fece. Porse il liquido scarlatto contenuto in una boccetta di cristallo alla ragazza.

“Non lo voglio,” disse scostandolo con la mano.

Aless fu felice di quel sì breve contatto, ma insistette per farglielo bere.

“Bevine solo un goccio. Domani starai subito meglio.”

Yinger alzò la testa dal cuscino, prese dalle mani bruscamente la boccetta e la sorseggiò.

“Sa di bacche rosse” disse accennando un breve sorriso.

“Sì… il tuo gusto preferito. L’ho scelto perché sapevo che ti piaceva.”

Yinger bevve tutto d’un fiato la pozione, prima che Aless potesse fermarla.

“Eh… no, così è troppa!”

“Era buonissima! Grazie, Aless” posò la testa sul cuscino e chiuse gli occhi subito.

“Buona notte, tesoro” e le baciò teneramente la fronte.

***

Quando Yinger si addormentò, iniziò a sognare. Vedeva una fanciulla. Era magra d’aspetto, aveva i capelli biondi, lunghi e gli occhi azzurri chiarissimi. La pelle diafana e un sottile velo celeste la copriva lasciando intravvedere il suo esile corpo.

“Benvenuta!”

Yinger chinò il capo: si sentiva leggera come una foglia.

“Sono Yinger” si presentò, ma quasi subito si pentì di aver pronunciato il suo nome. La bella fanciulla ora appariva come un mostro che la inseguiva, pronta con i suoi artigli ad afferrarla. Lei si mise a correre, ma quella mano-artiglio diventava sempre più grande, finché non la prese. Cercò di svincolarsi dalla stretta, ma si accorse che era sopra un albero e che i rami la stavano trattenendo.

“Ciao!” udì una voce sconosciuta.

“Chi sei?” domandò riuscendo a liberarsi dalla stretta e cadendo dall’albero.

“Sono Quesq.”

Yinger alzò lo sguardo in direzione della voce e vide che aveva di fronte un elfo. Era alto, slanciato, con la pelle chiarissima e i capelli tutti bianchi, le orecchie a punta. Indossava una casacca color indaco, una cinta, e un paio di pantaloni di fustagno dello stesso colore. Ai piedi calzava delle comode scarpette dorate, la cui punta finiva arrotolata all’indentro. Aveva in mano un flauto.

“Sei un elfo!” disse sbalordita Yinger.

“So cosa ti è accaduto di recente, e mi dispiace tanto. Yinger, ormai hai diciannove anni e devi essere forte. Tua nonna ti ha dato una missione da compiere, e tu la porterai a termine.”

“Parli dell’Antico Tomo?” domandò la ragazza.

“Certamente. Zosheng, uno stregone malvagio, si appresta a conquistare la città di Akyab. Tutto questo si rifletterà sul GranRegno. Molte genti, infatti, ne soffriranno. Yinger devi iniziare a studiare. Vai nella Biblioteca della città e nelle Biblioteche di tutte le città che incontrerai nel tuo cammino. Devi apprendere l’arte della magia. Non solo dai libri, ma anche pian piano da me. Ti insegnerò tutte le formule magiche utili per poter affrontare il tuo nemico.”

“Mia nonna mi ha detto che ci vuole un mago potente per poter aiutare la popolazione di Akyab, come farò io, da sola, a sconfiggere questo Zosheng.”

L’elfo non ci rifletté nemmeno un momento e disse: “Non ti preoccupare, ti istruirò io. Ma sappi che anche tu dovrai studiare moltissimo per diventare una brava maga o una brava strega.”

“Cosa vuoi dire?”

“Dovrai scegliere se diventare una strega bianca, quindi una maga, o una strega nera. Sappi che da entrambe le parti faranno di tutto per attirarti a sé, ma l’ultima scelta spetta a te. O entrerai nella Congrega delle Tredici Streghe Nere, oppure  sarai una Sacerdotessa al tempio di Ayon. Lo deciderai col tempo. Non avere fretta.”

“Quesq, quando ci incontreremo di nuovo?”

“In un altro sogno. Adesso va e ora che ti svegli. E’ già mattino e c’è il funerale di tua nonna.”

Così Yinger aprì gli occhi di scatto. Le ci volle un pochino prima di capire che era nella sua stanza e che Aless la stava delicatamente toccando per farla svegliare.

“Tutto è pronto, Yinger. Devi dare l’ultimo saluto a tua nonna.” Le disse.

Yinger si pose a sedere sul letto. Era ancora un po’ intontita, poco presente a se stessa.

“Adesso vengo,” fu tutta la sua risposta, mentre sbadigliava.

Aless uscì dalla stanza e lei indossò un abito scuro. Si lavò il viso, per rinfrescarsi e si diresse verso la stanza della nonna. La trovò avvolta in un lenzuolo bianco. Notò che il viso era sereno, anzi sembrava quasi sorridere. Era adagiata su una panca di legno. Yinger si coprì i neri capelli con il velo, in segno di lutto. Poi Aless e alcuni vicini trasportarono la salma pian piano fuori. In giardino già la fossa era scavata. Yinger si ricordò dell’amuleto al collo della nonna, quello a forma di stella. Si slanciò verso il corpo, ma Aless la fermò.

Le fece di no col capo.

“L’amuleto,” farfugliò confusamente.

“Te l’ho messo da parte.”

Poi iniziarono con la pala a lanciare le prime zolle di terra per coprire il corpo.

“Hai visto?” disse Aless. “Non piove!”

La ragazza iniziò a piangere: “Sì… è così… non piove.”

Coprirono il corpo. Poi Yinger, come per tradizione, si tolse il velo e lasciò che il vento lo trasportasse lontano da tutto, da loro.

“Che la tua anima riposi in pace, nonna Aduial!”

Il velo turbinò nell’aria e poi scomparve all’orizzonte, dove nemmeno i loro occhi potevano più vederlo.

“E’ la sua anima, che prende il volo, in lontane, lontanissime sponde!”

“Adesso dove è andata è molto più felice. L’hai visto, no? Sembrava sorridere…” disse sottovoce Aless.

“Sì,” ammise Yinger asciugandosi le lacrime col dorso della mano e sorridendo appena. “Lo spero proprio.”

***

L’indomani non aveva voglia di fare niente. Si era coricata con i doni della nonna. E faceva apparire e sparire il bastone, di tanto in tanto.

Si alzò, si vestì e fece colazione. Il sole splendeva nel cielo, poteva vederlo dalla finestra.

“Oggi è una bella giornata per raccogliere un po’ di bacche nel bosco,” pensò Yinger con un po’ di tristezza.

Così prese un cestino e si diresse verso il bosco. L’aria sapeva di profumi di primavera. C’era qualche rado fiorellino per terra. Inoltratasi nella foresta udì come bisbigliare. Si volse ma non c’era nessuno. Proseguì il suo cammino. Si ritrovò in una verdeggiante pianura piena di soffiobolle, infatti dalle corolle di questi fiori invece di uscire soffioni uscivano incantevoli bolle di sapone. Fu in una di queste bolle che Yinger vide un folletto. Era tutto vestito d’azzurro, con un cappellino che terminava con un pon pon bianco, ed aveva in mano, proprio dentro la bolla, una candela.

“Ciao!” la salutò.

“Ciao!” rispose Yinger.

Il folletto compariva e scompariva con le bolle dei soffioni, però ad Yinger sembrava fossero diversi e non sempre lo stesso perché alcuni avevano l’abito azzurro, altri bianco, altri rosa.

Da una bolla più grande uscì una folletta più grande.

“Io sono Rahama” disse il folletto. “E sono la regina dei folletti.”

“Salve, sua maestà.” Rispose Yinger.

“Vorrei farti dono di Pegaso. E’ un cavallo alato, ma può anche parlare e può aiutarti nella consegna dell’antico tomo”

Il cavallo apparve e ad Yinger parve bellissimo nel suo bianco splendore.

“E’ per il tuo viaggio, così non andrai a piedi.”

Nel frattempo il cavallo si era avvicinato e lei gli accarezzava il muso.

“Grazie per il gentile dono,” ringraziò Yinger.

La regina Rahama riprese a parlare: ” Sai? ho fatto una promessa a tua nonna Aduial, che mi ha salvato la vita e per questo ti faccio dono di Pegaso.”

Ma Yinger a malapena l’ascoltava, tutta intenta com’era ad ammirare il cavallo alato.

“Comunque, Yinger stai attenta, il viaggio è lungo e pericoloso. Sappi che tutti i miei folletti saranno sempre con te e ti aiuteranno nel momento del bisogno. Dentro di te c’è lo spirito di tua nonna, che era una potente maga, e sono sicura che riuscirai nello scopo che ti sei prefissata.

“Dai, Yinger!” prese la parola Pegaso “è ora che ti avvii per la tua missione!”

Così salì in groppa a Pegaso e il maestoso animale cominciò a volare.

Per Yinger fu bellissimo. Poteva sfiorare il cielo con un dito e poi anche le nuvole. Per un istante dimenticò tutti i suoi dispiaceri.

***

Nel pomeriggio la venne a trovare, come sempre, Aless e si misero subito in viaggio.

Avevano attraversato già la foresta di Muravej e la città di Halifax e si accamparono nella laguna di Orag dove furono attaccati dalla sorellastra Tinie. Il duello vide quasi vincitrice Tinie, con la sua magia nera. Infatti, la sorellastra era riuscita a ferire Yinger.

Il fuoco crepitava illuminando debolmente la caverna, i loro visi. Aless aveva portato subito al riparo Yinger. La maga era stata ferita da una freccia durante il combattimento con la sorellastra, Tinie. Ed ora Aless stava cercando di guarire Yinger con la sua magia. La ragazza aveva la febbre alta, mentre il mago preparava la pozione per curarla. Del resto avevano ben poco tempo per riprendere il loro viaggio verso l’antica città di Akyab. Così si avvicinò molto lentamente a Yinger, che giaceva a terra coperta dal suo mantello. La ferita era piena di sangue e doveva essere al più presto curata.

Le scostò i bei capelli neri, e cercò di slacciarle il corpetto, ma si fermò ad un tratto perché la maga aveva spalancato gli occhi e gli aveva bloccato il braccio.

“Aless, che cosa stai facendo?” gli domandò Yinger con voce rauca: le faceva tanto male la spalla.

“Cerco di estrarre la freccia perché altrimenti non posso curarti con la mia pozione.”

E senza che lei potesse ulteriormente ribattere, con decisione, tolse la freccia.

Yinger urlò per il dolore e la caverna risuonò tutta. Per alcuni istanti, che le parvero interminabili, vide nero.

Dopo perse i sensi.

Aless le pose l’impacco sulla ferita, e per tutta la notte si prese cura di lei.

Ora che dormiva placidamente la guardava con tenera insistenza. Si avvicinò al suo viso e la baciò dolcemente.

Non era la prima volta che assaggiava il suo sapore. Già una volta aveva tentato di baciarla, quando non erano altro che ragazzini.

Ma Yinger l’aveva rifiutato con forza e questo fatto gli dilaniava l’anima e il cuore. Continuamente. Lui l’amava!

Rivide quando erano piccoli. Yinger più alta di lui, i suoi boccoli neri, e gli occhi verdi della ragazza l’avevano catturato fin dal loro primo incontro da bambini: due fessure di un’anima che aveva amato. E il suo dolce profumo alla vaniglia… buonissimo… era ogni volta con lui, ma quando la vide diventare ogni giorno sempre più donna era stata allora che il desiderio era cresciuto dentro di lui.

Nel frattempo Yinger si risvegliava lentamente. Le ci vollero alcuni minuti prima di comprendere che era a terra, in una grotta, tra le braccia di Aless. Lo fissò per alcuni istanti, poi si pose a sedere. Aveva le lacrime agli occhi.

“Perché sento bruciare la spalla?” domandò intontita dal dolore.

“Tinie ti ha colpita. Mi spiace!” disse il ragazzo mettendosi subito in piedi, come colto in flagrante.

“Ed io cosa ci facevo tra le tue braccia?” chiese Yinger indispettita.

“Sei svenuta per il dolore. Mi spiace!” rispose il ragazzo afflitto.

“Per te è sempre un’occasione per toccarmi. Non è vero?” incalzò arrabbiata.

“Non è come pensi,” ammise Aless imbarazzato. “E’ capitato, tutto qui!”

Yinger si alzò per guardarlo in faccia, dritto negli occhi.

“Vedi di non azzardarti più!” lo rimproverò.

Sul viso di Aless affiorò un velo di tristezza, un’ombra fugace. Si rabbuiò, infatti. Conosceva il caratterino ribelle di Yinger ed era per questo che l’adorava. Fuori iniziò a piovere, le prime gocce caddero, bagnando l’ingresso della grotta. Si udiva solo il crepitare del legno nel falò. Un legnetto, infatti, si sfaldò e divenne cenere tra la cenere.

“Altrimenti cosa mi farai?” proruppe in tono di sfida Aless, afferrandole le spalle.

Finalmente aveva trovato il coraggio. Il cuore gli batteva forte. Le tempie gli pulsavano. Dirle tutta la verità, dirle tutta la verità, urlò una voce dentro di lui.

“Io ti amo Yinger!” e l’abbracciò senza esitazione.

Lei si ritrovò tra le sue braccia, ma non ricambiò il suo abbraccio. Una lacrima le scese lenta sulla guancia e si nascose sotto il mento.

“Non l’hai capito? Non posso vivere senza di te! Senza la tua presenza accanto alla mia! Perché dovrebbe sorgere il sole in cielo, o esserci la luna se tu non ci sei? Cosa contano per me le nuvole che oscurano una bella mattina primaverile di sole se tu non sei con me? Nulla è degno di essere vissuto, nemmeno la mia vita, se tu non sei al mio fianco!”

Lei cercò di svincolarsi dalla stretta e protestò:”Bè… non mi interessa. Non ti amo Aless, credo che anche tu dovresti saperlo!”

Riuscì a staccarsi dall’abbraccio.

“Penso che sia meglio che le nostre strade si dividano, allora.” Sentenziò incrociando le braccia al petto. “Io proseguirò la mia verso Akyab, e tu te ne andrai per la tua. Non mi serve il tuo aiuto. Hai capito?”

Lui taceva.

“Và via! Ora! Subito!” e gli indicò l’entrata della grotta.

Aless posò il suo sguardo con tenerezza su di lei, poi disse, dirigendosi verso l’entrata.

“Me ne andrò. Ma ricorda: qualunque cosa tu avrai bisogno, io ci sarò! Non ti abbandonerò! Mai!”

Uscì e la pioggia gli bagnò i rossi capelli, il vestito. Yinger lo vide scomparire dalla sua vista. Ormai la pioggia cadeva fittissima e col buio era difficile distinguere le ombre dalla foresta.

Ormai erano diversi mesi che viaggiavano lei insieme a Pegaso. Una sera sognò, avendo come sempre bevuto l’infuso di bacche di Aless.

Vedeva una collina fiorita. C’era la stessa fanciulla dell’altra volta. Saltellava sul prato. La vedeva solo di spalle.

“Chi sei?” osò chiederle.

Quella si volse e lei vide i suoi occhi azzurri chiarissimi fissarla a lungo. Poi, come nel sogno precedente, si lanciò verso di lei per afferrarla con le sue mani- artiglio. E lei si ritrovò prigioniera dei rami di un albero.

“Bentornata!” la salutò calorosamente Quesq.

L’elfo suonava il suo flauto con dolcezza.

Lei riuscì a liberarsi dai rami e ricadde un’altra volta a terra. Questa volta però un morbido tappeto di foglie gialle attutì la sua caduta a terra.

“Da dove vieni, Quesq?” gli domandò con curiosità sedendosi sul morbido letto di foglie secche.

“Sono di Aveyon, la città contesa dal regno Luna di vetro e Corallo d’Avorio.”

Aveyon, la Grande città elfica dalla porta magica!”

L’elfo annuì e riprese a suonare. Il suono del flauto riempiva l’aria di dolcezza. Petali di rosa si levarono leggiadramente nell’aria. Turbinarono attorno a loro per poi scomparire all’orizzonte.

Smise di suonare e disse, sempre con dolce tristezza: “Ma io sono rimasto solo. La città è stata distrutta ai tempi di re Erothu ed io sono rimasto l’ultimo della mia stirpe.”

Una lacrima gli scivolò lenta sulla guancia. Brillò alla tenue luce del sole, come un diamante.

“Se non ci fossero i tuoi sogni, cara Yinger, sarei già morto.”

“Chi è la ragazza che vedo prima di incontrarti?”

“Lei è… Alatariel. Non è un’elfa. Ti permette di incontrarmi. Diciamo che è una porta di accesso.”

Yinger posò la mano sull’albero. “E’ lei?” sussurrò.

L’elfo annuì. “Sì… è una ninfa degli alberi dei sogni. Se non ci fosse non potremmo vederci, né sentirci,” continuò triste Quesq.

Yinger abbracciò le gambe e rimase pensierosa in silenzio.

Poi disse: “Perché sei così solo, solo come me?”

L’elfo alzò le spalle come dire “non so” ed aggiunse: “E tu perché ti senti sola?”

“Io non mi sento sola. Sono sola. Mia nonna era tutta la mia famiglia. Era tutto per me. Era come una madre. Adesso non ho più nessuno, al mio fianco. Sono sola.”

“Non lasciare che la tristezza prenda il sopravvento!”

Quesq smise di suonare un’altra volta: “E’ giunto il momento, Yinger devi ritornare nella realtà. Continua a studiare, imparerai tante cose dai libri. Presto sarai da Akyab ed è ora che tu liberi la città dall’assedio di Zhoseng.”

Già, infatti, si vedeva in lontananza la grande città di Akyab. Con i suoi mattoni rossi, la città deserta brillava alla luce del sole. Zhoseng, il malvagio Incantatore, si apprestava ormai a conquistarla con tutto il suo esercito di Troll. Indossava un’armatura fatta d’argento con incastonate delle pietre preziose, non portava l’elmo ma i suoi lunghi capelli biondi erano legati a coda, cavalcava un grande drago nero. Yinger e Pegaso erano pronti per la battaglia finale.

“Che tu possa essere maledetto Zhoseng.” Digrignò i denti la ragazza.

“Non sei una delle Streghe Nere, non puoi farmi nulla con le tue inutili parole,” sibilò il mago guardandola a lungo con i suoi occhi azzurri freddi come ghiaccio.

“Ma con la mia magia sì…” gridò Yinger in groppa a Pegaso. “Riuscirò a sconfiggerti, fosse l’ultima cosa che faccio,” ed alzò un braccio con il pugno chiuso in segno di guerra.

Intanto Aless, che li aveva sempre seguiti di nascosto, era giunto sul luogo del combattimento e si nascondeva fra i cespugli. Era preoccupato per la sua amata, stringeva, di fatti, il suo bastone, pronto ad intervenire se ce ne fosse stato bisogno.

Zhoseng sferrò il primo attacco con enorme ferocia, disarcionando subito Yinger.

Caduta a terra si rialzò a fatica. Poi creò con le mani una sfera infuocata assorbendo parte dell’energia dai quattro elementi, che li invocò:

“Aquam, Ignem, Terram, Aerem… venite a me!”

Anche Pegaso l’aiutò donandole l’ultima gemma del suo unicorno e scomparendo così del tutto.

La sfera diventò sempre più grande e investì, con immensa forza, Zhoseng, il quale riuscì però a fuggire sacrificando il suo dragone.
Ora erano l’uno di fronte all’altro, senza destrieri:

“Non ti servirà a nulla Yinger opporti alla mia magia e l’Antico Tomo sarà finalmente mio e conquisterò la città di Akyab. Il GranRegno sarà governato da me soltanto!” le disse l’Incantatore. “Sono superiore a te!” e rise maleficamente.

“Staremo a vedere!” gli rispose la ragazza, ma in cuor suo sapeva che per sconfiggerlo doveva aprire l’Antico Tomo ed evocare la magia dell’annullamento.

Fu allora che vide Aless tra i cespugli.

Guardandolo dritto negli occhi e facendogli cenno con la testa, fece apparire l’Antico Tomo e glielo lanciò.

“Apri il libro” gli gridò

“No,Yinger!” gli rispose Aless “Lo sai che non sei ancora pronta! Morirai: non sei abbastanza forte e il libro assorbirà tutta la tua energia vitale!”

“Non ti preoccupare per me! Almeno riuscirò a fermare il crudele Zhoseng e distruggerò i suoi incantesimi una volta per tutte!” continuò la ragazza

“Non farlo,Yinger!” urlò Aless con quanto fiato aveva in gola.

Ma ormai era troppo tardi, Yinger era corsa verso lui, aveva aperto il libro ed aveva evocato la magia dell’annullamento.
L’incantesimo consisteva nell’annullare tutte le proprie forze magiche e ripiegarle al proprio volere.

Zhoseng rimase sbalordito dalla tenacia della ragazza.

Così Yinger sferrò il suo attacco e lui, sopraffatto, scomparve subito bruciando tra le fiamme.

Yinger cadde a terra priva di vita, i suoi lunghi capelli si erano sciolti e giacevano sparsi per terra.

Aless le corse incontro, la strinse vigorosamente tra le sue braccia.

“Yinger cha hai fatto?” disse singhiozzando. “Come, come hai potuto lasciarmi da solo? Non posso viver senza di te! No, non è giusto era già crudele che non ti potevo avere ma almeno eri viva e sempre vicina a me e ti potevo amare !”

Alzatosi in piedi, cominciò a prendere a pugni il tronco di un albero che era lì vicino.

Il sangue ormai gli colava dalla mani piene di lividi.

“Amor mio!” pianse calde lacrime.

Poi si avvicinò al corpo senza vita di Yinger, le prese il medaglione a forma di stella ed invocò gli spiriti dei morti.

“Dono la mia vita per darla a te mio unico amore, così saremo un’ unica cosa!”

La prese tra le braccia e la baciò e ribaciò anche se piano piano andava scomparendo come gocce di rugiada.

Yinger si sollevò da terra: era tutta indolenzita. Le faceva male ovunque: le braccia, le gambe, la schiena: non aveva mai provato un simile dolore fino ad allora. Ma cosa era accaduto? Ricordava ben poco. Stava duellando contro il malvagio Zhoseng, aveva aperto l’Antico Tomo e poi buio. Era sprofondata nel buio più completo. Si guardò attorno e vide che c’era terra bruciata. Si accorse di essere completamente sola. Poi un flash: rivide gli occhi del ragazzo, di Aless. Allora, si ricordò di ogni cosa.

“Aless dove sei?” iniziò ad urlare, ma nessuno le rispondeva.

Proprio in quel momento, mentre iniziava a piangere, l’amuleto si staccò dal suo collo e fluttuò nell’aria densa di fumo. Brillò e da esso uscì come se fosse un velo dorato che luccicava in alcuni punti. Il velo prese forma di sua nonna, il suo spirito ora era così al suo cospetto.

“Yinger, cara nipote, và il tuo destino si è ormai compiuto. Raggiungi la città segreta, la città di Akyab, e riporta l’Antico Tomo per aprire finalmente le Sacre Porte della Biblioteca Segreta.”

“Nonna, Zhoseng è stato sconfitto. Che senso ha andare ad Akyab?”

“Ma tu sei l’Eletta, la Custode Sacra del libro. Come già ti ha detto Quesq, dovrai fare la tua scelta…”

“Dov’è Pegaso, il mio fedele amico?” chiese Yinger incurante delle parole di nonna Aduial.

“Pegaso ormai è libero: è diventato il principe del regno. L’incantesimo è stato sciolto.” Rispose con voce calma la nonna.

“E Aless?”

“Aless è sempre con te, piccola cara! Non ci ha pensato ed ha seguito il suo cuore, donando la sua vita per te.”

“No, no, non ci credo! Non può essere!” si rannicchiò abbracciandosi le gambe ancora indolenzite.

“Sai nonna? Per un attimo mi è sembrato di vederti, di vedere mia madre attraverso di te. Eravate due figure trasfigurate e sovrapposte. Allora, ho compreso che ero vicina per raggiungervi. Poi, non so cosa è accaduto. E’ come se una mano forte mi avesse afferrato per i capelli e riportato in superficie. Quando mi sono risvegliata ho provato subito una gran pace e avevo il viso umido di gocce di rugiada.”

“E’ sempre così quando scompare un mago: scompare in mille gocce di rugiada. E Aless era un grande mago. Il suo immenso amore per te era sincero e devoto. Adesso và ad Akyab e fa la tua scelta. Sappi che se diventerai una Sacerdotessa non potrai amare nessuno, però potrai aiutare gli altri con i tuoi immensi doni. Se invece sarai una Strega nera, potrai avere tutti gli uomini ai tuoi piedi, ma non potrai aiutare nessuno con la tua magia, anzi potrai solo fare del male e non essere mai punita per questo, perché questa è la natura delle Tredici Streghe nere.”

Lo spirito della nonna si dissolse delicatamente. Era rimasta da sola, di nuovo. Prese l’amuleto che era caduto a terra e si diresse solerte verso la città. Ormai aveva fatto la sua scelta. Giunta in città e trovata la Biblioteca, c’era ad aspettarla nella grande sala un vecchio tutto curvo, intento a leggere su un grande tomo.

“Ti stavo aspettando,” disse l’anziano con la sua voce gracchiante.

La fissò per alcuni istanti ed Yinger che si era quasi trascinata fin lì non provò nulla, nemmeno fastidio.

“Ho fatto la mia scelta,” disse la ragazza senza preamboli.

“Ebbene?” domandò il vecchio, continuando a fissarla con i suoi piccoli occhi.

“Aless mi ha insegnato che amare gli altri fino a dare la propria vita è la cosa più importante. Per questo ho deciso di rinunciare al fascino della vita delle Tredici Streghe Nere per diventare Sacerdotessa al Tempio di Ayon.”

“Sai cosa ti aspetta? Non potrai mai congiungerti ad alcuno, né potrai innamorarti. Aiuterai i fedeli che accorrono al Tempio e riceverai i loro doni materiali, ma sarà solo una ricchezza fisica non spirituale. E’ il terribile castigo che fu lanciato alle Sacerdotesse anni or sono. In pratica non avrai nulla, se non la capacità di guarire e di aiutare i tuoi fedeli. Una vita di rinunce.”

Yinger annuì con le lacrime agli occhi.

“So che mi aspetta una vita dura, ma l’accetto.”

Il vecchio bibliotecario esclamò: “Un bell’atto di coraggio!”

Si alzò dalla sedia fino a dove era stato seduto e lentamente si mosse verso la ragazza: “Và ora! Apri le Sacre porte della Biblioteca Segreta ti condurranno verso la tua scelta.

Yinger posò il tomo sullo scaffale dove gli indicava il vecchio e gli scaffali si aprirono rivelando una porta segreta. C’erano delle scale strette e buie. Iniziò a scenderle da sola. Una luce l’avvolse.

“Da oggi in poi sarai sacerdotessa del Tempio di Ayon, ti sarà donato ogni potere, ma non servirà per guarirti. Tra questi poteri quello del Tempo, potrai viaggiare e se vuoi fermarlo, ma quando lo fermerai invecchierai un pochino.”

La voce scomparve ed Yinger si ritrovò rivestita da una lunga veste smeraldo.

Da quel giorno, rimase quasi fedele al suo ruolo di sacerdotessa, anche se molti che visitavano il Tempio, rimanevano esterrefatti nel vederla sempre più vecchia.

Infatti Yinger, di tanto in tanto, vagava nel Tempo per poter rivedere il suo amato Aless.