Archivi tag: scrittura creativa online

TASSO ZERO di Anna Maria Lisci – Primo Livello Adulti. Corso di Scrittura Online

TASSO ZERO
Anna Maria Lisci

Primo Livello – Corso Adulti

Lia correva, infagottata nel pesante capotto nero fuori moda, correva a perdifiato sul marciapiede. Ogni tanto scartava un passante , dribblava un bambino e allo stesso tempo tentava di non perdere di vista l’uomo alto e dinoccolato che correva davanti a lei. Lia lo stava inseguendo.
Erano le otto mezzo, le strade erano affollate di persone che si recavano a lavoro e di mamme che accompagnavano i bambini a scuola, il traffico era intenso, faceva stranamente caldo per essere una mattinata di fine primavera. La nuova stagione non era ancora veramente iniziata.
Anche l’uomo correva, le lunghe gambe da ragno sembravano quasi saltare, tanto ampie erano le falcate con cui avanzava, ogni tanto controllava con la coda dell’occhio a che distanza si trovasse la donna che lo inseguiva. Alla fine, girò l’angolo e subito quello successivo, urtò un passante che non gli badò, e quando gli sembrò di avere finalmente distanziato Lia, prese un’andatura più normale, si guardò intorno con circospezione  ed entrò in un vecchio palazzo maestoso.
Lia pensò che per essere un uomo di mezza età aveva davvero un’energia invidiabile. Non aveva rallentato un attimo, lei invece stava ansimando, era stanca e le faceva male un fianco, non era abituata a correre e quel dolore le ricordò che era lievemente sovrappeso e che era di mettersi a dieta. Si stupì dei pensieri semplici che le venivano in mente in quel momento. Cercò di non farsi distrarre da divagazioni inutili e cercò l’uomo con lo sguardo.
Per un attimo temette di averlo perso e si sentì mancare il fiato, invece riuscì ad individuarlo mentre svoltava in una via laterale, lo vide entrare in un vecchio palazzo e uscì dal suo nascondiglio.
La pensilina alla fermata dell’autobus, l’aveva riparata dallo sguardo dell’uomo ma non le aveva impedito di individuare la sua destinazione.
Riprese a correre per fermare il pesante portone di legno che si stava richiudendo lentamente alle spalle dell’uomo, lui aveva già preso a salire le scale e non si era reso conto di avere Lia alle calcagna. Cautamente la donna si sporse nell’androne verso le scale, il cuore le batteva così forte che per un attimo temette che qualcuno potesse sentirlo, poi quasi si mise a ridere e si diede della sciocca per avere avuto un pensiero così assurdo.
Contò i passi di lui e poi sentì un campanello.
Nascosta nel vano della scala, vide quella che sembrava una segretaria occhialuta e di mezza età aprire la porta.
La donna vedendolo così trafelato gli chiese se era tutto a posto. “Si, si. Lasci perdere… un’avventura… Non può neanche immaginare cosa mi è successo…” rispose lui.
Appena la porta si chiuse alle loro spalle, Lia percorse gli ultimi gradini di marmo consumato del pianerottolo. Cercò di ricomporsi, non si era resa conto che facesse così caldo, sbottonò il cappotto, cercò di allisciare i lunghi capelli neri alla bell’è meglio  e suonò il campanello.
La stessa segretaria aprì di nuovo la porta e sgranò gli occhi con un’espressione sorpresa quando la riconobbe, Lia approfittò del suo momento di confusione per spingerla di lato e spalancare la porta, entrò decisa e la guardò con aria di sfida.
“Cosa ci fa qui signora? Guardi che era stata convocata dall’altra sede… Non può stare qui… Deve andare via subito!” le disse la segretaria.
“NO! Io non me ne vado. Voglio vederlo subito!” rispose Lia agitatissima.
In quella che sembrava una sala d’aspetto sedevano diverse persone in attesa del loro turno. A sentire tutto quel chiasso, alcune di loro, uscirono nel corridoio per vedere cosa stava succedendo.
La segretaria si rese conto che stavano facendo una scenata di fronte a tutti e tentò di mandarla via spingendola delicatamente fuori della porta. “Non si può! Avanti signora si calmi….”
“Io non muovo da qui! Ha capito? Non me ne vado! Non mi muovo da qui se non parlo  con qualcuno… Mi tolga le mani di dosso e lo chiami… SUBITO!” Urlò Lia.
Attirato dal fracasso, l’uomo uscì finalmente dal suo ufficio per vedere a cosa era dovuto quel baccano. “Insomma..” le parole gli morirono in gola non appena riconobbe Lia, valutò rapidamente la situazione,  fece tornare i curiosi in sala d’aspetto, rimandò la segretaria alla sua scrivania non prima di averla rassicurata, prese Lia per un braccio e la guidò verso il suo ufficio.
Lia si era calmata e si lasciò portare dolcemente verso la sedia, si accomodò e restò in attesa senza dire nulla, prese tempo per guardarsi intorno, apprezzò le librerie di legno massiccio appoggiate alle pareti e stracolme di tomi e libri antichi, ammirò il marmo del pavimento, le finestre altissime e le tende di broccato pesante, infine, concentrò lo sguardo sulla scrivania antica e bellissima.
Si chiese come mai non ci fosse un computer, fissò lo sguardo su una pila ordinata di cartelle e sulla stilografica che era posata li sopra e rimase in attesa.
L’uomo chiuse la porta alle sue spalle, e sedette dall’altra parte della scrivania, Lia interruppe le sue osservazioni e alzò gli occhi su di lui. L’espressione dell’uomo era seria e severa ma si addolcì un poco notando i capelli scarmigliati e lo sguardo della donna che altalenava tra sfida e paura.
“Dunque – esordì – mi dispiace, ma non posso aiutarla, non so come abbia fatto a trovarmi, ma vede, lei era stata convocata dall’altra sede ed era lì che doveva andare, anzi che deve andare…. La stanno aspettando.”
“NO!  -lo interruppe Lia – Voglio una dilazione, non posso saldare adesso… Lei deve aiutarmi. Non me ne vado se non mi concedete un rinvio.”
L’uomo cercò di farla ragionare: “Mi dispiace, ma non è possibile, è contro le regole”
“Non è vero, – insistette Lia – io so che l’avete fatto altre volte… ho bisogno di un proroga! Non è giusto, ci sono tante cose che devo fare, ho bisogno che mi concediate una posticipazione, per favore, la prego…. Mi aiuti, perché ad altri si e a me no, non è giusto! Li ho visti quelli che stanno spettando. Sono sicura che a loro sarà concessa una proroga. Io non me ne vado, ecco! Non mi muovo da questa sedia! Dovrete darmi retta per forza”
“Mi dispiace, – le rispose l’uomo – non cambia niente, anche se lei rimanesse qui cent’anni non cambierebbe niente, e per quel che riguarda gli altri, se la può consolare saperlo, le proroghe erano già previste dal contratto. Non si fanno trattamenti di favore a nessuno.”
Rimasero  a fissarsi per un lunghissimo istante, lo squillo del telefono nero interruppe quel silenzioso duello tra volontà. Un dolore al petto l’avvertì che si era dimenticata di respirare nell’ansia di spiegare le sue ragioni.
L’uomo alzò la cornetta e rispose alla telefonata. Va bene, – disse – d’accordo, glielo dico io” si voltò verso Lia e le confermò ancora una volta che non potevano concederle proroghe.
Il tono dell’uomo aveva una nota così definitiva che finalmente fece comprendere a Lia che non c’era davvero nessuna possibilità di avere un rinvio.
Alzò lo sguardo verso il cielo e fissò le nubi che passavano, all’improvviso fu conscia di essere supina, l’asfalto era duro sotto la schiena e non sentiva più le gambe. Qualcuno le teneva la mano e le parlava, ma non riusciva a capire cosa le stesse dicendo, altri visi ansiosi e preoccupati erano chini su di lei, voleva chiedergli di spostarsi perché non riusciva a vedere bene, ma si accorse di non averne la forza, il respiro le usciva di bocca in rantoli spezzati.
Senti in lontananza l’ululato della sirena di un’ambulanza.
Ricordò all’improvviso l’auto che le piombava addosso mentre attraversava le strisce pedonali, ricordò l’urto, il volo e l’atterraggio brusco in mezzo alla strada e poi, si era ritrovata a correre.
Le veniva quasi da ridere ripensando a quell’inseguimento inutile. Si rese conto che davvero per lei non era previsto nessun rinvio, in qualche modo confuso si accorse che erano venuti a prenderla, piegò la testa di lato  e pensò che era davvero un peccato che fosse già tutto terminato.
Smosse dal vento, due file di Jacarande ai lati della strada, gettavano fiori e petali lilla sul suo corpo immobile, dando alla sua fine un senso quasi poetico.

RITORNO A CASA di Giulia Acquistapace – Secondo Livello Adulti. Corso di Scrittura Online

RITORNO A CASA
Giulia Acquistapace

Secondo Livello – Corso Adulti

Il sole quasi autunnale rifletteva i suoi tiepidi raggi sui tetti ingrigiti della zona adiacente a Monte Mario, specchiandosi nel placido Tevere che, alla stregua di un nastro argentato, attraversava da millenni, imperturbabile, la città eterna.
Omobono se ne stava allungato sulla panchina proprio nel parco, sull’altura adiacente a casa, a rimuginare.
Il lavoro era stato particolarmente stressante negli ultimi giorni e le recenti ricerche l’avevano assorbito persino nei giorni di festa, costringendolo in centrale attaccato al computer, a sfinirsi la vista fra elenchi interminabili. Spesso si trattava di centinaia di opere di collezioni private, talvolta di nomi e cognomi di compratori e venditori ad aste. Qualche volta diventava un vero e proprio rebus il confronto di dettagli per scoprire le fini differenze fra falsi e autentici.
Insomma, da quando era arrivato a Roma il suo compito era stato uno soltanto, in cui ormai era diventato il numero uno: il recupero di opere d’arte rubate.
In Polizia era uno dei più giovani addetti ai lavori: senza moglie e figli a cui badare, senza genitori da cui recarsi la domenica a pranzo, Omobono era stato scelto da subito dal Comandante per quel compito delicato, nonostante il ragazzo avesse storto in naso e opposto una tacita resistenza passiva per i primi tempi: si riteneva un tipo d’azione e l’idea di passare ore ed ore fra quattro mura, fossero musei e collezioni oppure l’ufficio, lo disturbava non poco.
Finché un bel giorno non s’era innamorato: un mezzo busto di marmo, probabilmente una Cerere,
trafugato durante il trasporto fra il laboratorio di restauro sulla Nomentana e la residenza del ricco proprietario in una traversa di Via del Corso. Quando aveva raccolto la denuncia e aveva visto la foto, era rimasto affascinato dalla dolcezza del volto della dea, dalla severa armonia del gesto che stava compiendo, allungando le braccia verso lo spettatore, porgendo un cesto pieno di spighe ormai perduto.
Indipendentemente dal valore monetario, comprendeva quanto l’immagine potesse significare per il proprietario, la cui famiglia la possedeva da generazioni.

Si era buttato anima e corpo nella ricerca, prima nello studio della simbologia, poi sulle tracce di presunti ladri.
Ci aveva dedicato mesi e mesi.

Finché ecco, un bel giorno di autunno, pochi prima di concedersi un pomeriggio al parco, ce l’aveva fatta.
Avevano organizzato la perquisizione, quindi il blitz e l’opera d’arte era tornata ad ornare la casa dei proprietari, i quali, entusiasti, avevano persino fatto pubblicare un ringraziamento speciale nel
“Corriere della Sera” del sabato successivo lodando l’abilità del dottor Omobono Bodini, proprio lui, nel riconsegnare alla loro galleria e al pubblico una statua di tale importanza.

Il racconto prosegue, cliccate sulle pagine qui sotto…

LA CAPANNA SUL GRATTACIELO di Sonia Scalia – Secondo Livello Adulti. Corso di Scrittura Online

LA CAPANNA SUL GRATTACIELO
di Sonia Scalia
Corso Adulti – Secondo Livello

*1*

È maschio o femmina? Da giorni non pensavo ad altro. A cosa sarebbe capace di fare mio padre se nel grembo di Masuri crescesse una “lei”.
Sedetti, mi rialzai impaziente e mi rimisi seduto. E lo feci ancora, ancora, e ancora una volta. Accendendo un sigaro dopo l’altro per calmare i nervi.
La sala d’aspetto della clinica di Mongledoy pareva un formicaio umano. D’altronde si trattava dell’unica struttura ospedaliera nel giro di migliaia di kilometri, dotata di una sofisticata apparecchiatura ad ultrasuoni, in grado di determinare il sesso del nascituro fin dai primissimi mesi di gestazione.
Perciò mi trovavo qui con mia moglie.
Ci aveva obbligati mio padre, succube com’è delle leggi non scritte del nostro villaggio, che privilegiano l’eredità del figlio maschio.
Sottoponevano da quasi due ore Masuri ai test illegali. E a breve il medico, la cui complicità aveva richiesto il pagamento di ben 500 rupie, mi avrebbe convocato per darmi la notizia: un figlio maschio equivaleva alla buona sorte, a un bacio beneaugurante in fronte. Era una promessa di salute e abbondanza, la cosa migliore che potesse accadere a un padre. Al contrario, una femmina a Tabù Nari era una disgrazia per tutta la famiglia. Una radice marcia da estirpare.
Da debellare sul nascere.
Finalmente il medico chiamò il mio nome, mi fece accomodare nel suo studio e cauto s’accertò d’aver chiuso la porta alle mie spalle, in modo che nulla di quella conversazione potesse uscire. Raggiunsi Masuri, stava seduta al lato opposto di una massiccia scrivania. Aveva il capo abbassato, chiusa in un silenzio rammaricato. Non alzò lo sguardo nemmeno quando le presi le mani tra le mie e gliele tenni strette.
«Con me sei al sicuro», le sussurrai per rassicurarla, anche se in fondo al mio cuore si agitava una tempesta.
L’espressione dipinta sul volto di mia moglie la diceva lunga sull’esito degli esami… E se mi sbagliavo? Avevo bisogno di sapere.
Un’urgenza disperata di sapere.
Il medico ci scrutò ambedue per qualche istante.
«Femmina. Mi dispiace, signor Pradesh». A quelle parole rabbrividii. L’uomo abbottonò un paio di bottoni del camice che teneva aperto sul petto, fissandomi con curiosità. Dopodiché non si fece scappare l’occasione di farmi una proposta, come se non potessi far altro che accettarla.
«Voi venite da Tabù Nari… Vista la situazione… con l’aggiunta di trecento rupie le posso prenotare l’aborto per la prossima settimana».
Non gli risposi. In quel momento pensai a mia madre. Chissà quante volte aveva vissuto una circostanza simile e quante lacrime amare aveva versato. Giunsi le mani al petto e mi congedai al medico cercando di non far trapelare alcuna emozione. Presi Masuri sottobraccio e insieme ci avviammo alla porta.
Nel tragitto di ritorno verso il villaggio, Masuri non parlava. Aveva lo sguardo perso nel vuoto e mordicchiava le sue labbra torturandole.
Allungai una mano e le passai le dita tra i capelli. A quel contatto le sue guance s’inondarono di lacrime. La strinsi forte a me.
Mai sarei venuto meno alle promesse che ci eravamo scambiati. Aspettavo solo di ascoltare cosa desiderasse il suo cuore. Sono un “uomo”, e forse era proprio questo il guaio, per ciò Masuri stentava a parlarmi. Eppure sapevo di essere diverso dagli altri uomini di Tabù Nari, mia madre me lo aveva fatto notare nel giorno del nostro ultimo saluto, e soprattutto ero diverso da mio padre. Non volevo più essere un vigliacco! Era ora di dimostrarlo.
Il tuk tuk su cui viaggiavamo traballava lungo le strade dissestate. Masuri tremava tra le mie braccia. Tremava, ma di paura.
D’un tratto il tremore del suo corpo si placò, prese la mano con cui la accarezzavo e se la poggiò sul ventre. Poi annuendo col viso rischiarato da una nuova luce, mi chiese un giuramento.
Le giurai di dare un futuro a nostra figlia. Un futuro migliore di quello toccato a mia madre, toccato a tutte le donne nate e mai nate nella mia terra. Glielo giurai.
A mio padre raccontammo la bugia che voleva sentirsi dire.
«È un maschio!»
Preso dall’entusiasmo il mio vecchio rispolverò un turbante arancio vivo e lo indossò per i festeggiamenti. Bevve una tazza di bevanda liquorosa e mi obbligò a fare lo stesso, ad andare di capanna in capanna per dare la bella notizia.
«Un nuovo Pradesh» urlava. Avrebbe lavorato in bottega e ricevuto alla nascita il cofanetto con gli attrezzi da falegname come ogni Pradesh prima di lui: uno scalpello, un punteruolo, un martello e una pialla. Un mestiere grazie al quale il nostro nome si sarebbe tramandato nei secoli.
Lo osservavo con il terrore nel cuore, temendo a ragion veduta per mia moglie e mia figlia. Quella bugia aveva il tempo contato. Presto Masuri avrebbe dato alla luce una bambina. Dovevamo scappare. Fuggire dal villaggio. Le mie donne meritavano un’occasione grazie a cui anche la morte di mamma Bontasa sarebbe stata riscattata. Dovevamo fuggire. Fuggire dove la vergogna di mio padre e del mio popolo non ci avrebbe trovato. Ma dove?

Il racconto prosegue, cliccate sulle pagine qui sotto…

IL GUERRIERO DELLA LUCE di Alessio Scalia – Secondo Livello Adulti. Corso di Scrittura Online

IL GUERRIERO DELLA LUCE

di Alessio Scalia

Corso Adulti- Secondo Livello

Chi sono? Beh, è complicato. Posso dirvi che non avrei mai immaginato che per colpa di un cellulare magico e maledetto, mi sarei ritrovato sul letto di morte con qualche misero giorno da vivere, in condizioni atroci, condizioni che non augurerei al peggiore dei miei nemici.
Come ogni buona storia, inizio con il raccontarvi qualcosa di me.
Ogni mattina, al mio risveglio, mi guardo allo specchio. Ormai è diventata un’ossessione. Mi scruto attentamente il torace e le braccia, verifico l’altezza, e infine, salto sulla bilancia per controllare il peso. E rimango deluso. Nonostante m’ingozzi quasi fino a vomitare, resto magro come il telaio di una bicicletta e alto quanto un cucciolo di pinguino. Ma perché? Mi chiedo esasperato.
E poi… inizia l’incubo!
Indosso le mie felpe armate di cappuccio, inforco la bicicletta, mi copro il capo per nascondere la mia identità e vado a scuola. Intendiamoci, non è la scuola il problema. Con i libri e i compiti me la cavo benissimo. Sono molto intelligente; il primo della classe. Ma ogni volta che metto piede all’Istituto Archimede, dove frequento la terza media, mi arriva puntuale il batticuore. E allora come un topo impaurito striscio tra gli altri alunni.
Faccio tutto questo per sfuggire agli occhi del mio nemico: Tony Menansio. Tony mi perseguita. Tutte le volte che mi vede, gli cola una bava schiumosa dalla bocca, vorrebbe pestarmi a sangue.
Il fatto è che ho paura di battermi, una paura indescrivibile. Forse è per via del fisico gracile o del carattere pacato e pacifico che possiedo. Alcune notti sogno di essere un guerriero, uno che uccide, che sa maneggiare armi e spade. E soprattutto, un guerriero che trabocca potere da ogni poro della pelle. Ma appena salto giù dal letto e sto per affrontare la giornata, deluso mi rendo conto di essere un comune mortale.
Comunque, l’unica spiegazione plausibile dell’astio che Tony prova nei miei confronti, è che a entrambi piace l’incantevole Tania, la ragazza più carina della scuola. È per questo che lui vuole eliminarmi, credo.
Il mio desiderio più grande è andare al ballo di fine anno insieme a Tania. Ma quando mi ritrovo a parlare con lei, sento un groppo in gola e comincio a tremare. Mi piacerebbe farla sorridere con qualche battuta o sorprenderla con un gesto romantico, tipo scriverle una lettera anonima o invitarla in una pizzeria che porta il suo nome; e invece resto muto come un pesce congelato. Sono timido, che posso farci!
Come avrete già capito non sono un macho. Porto gli occhiali e amo i computer e i videogame. Insomma, il tipo di persona che non piace alle femminucce e che non si mette in mostra facendo lo spavaldo. Da grande voglio diventare inventore di giochi o programmatore di computer.
Tuttavia quella ragazza mi piace davvero. Sono un illuso! Come posso pensare che lei, la più incantevole della scuola si interessi a un marmocchio come me? E poi c’è Tony. Se sapesse che ho invitato Tania al ballo, non ci penserebbe due secondi ad accartocciarmi come un foglio di carta da buttare via.
A scuola, Tony se ne va in giro dicendo a tutti le peggiori cose di me: “Matteo Fugiotti è un verme e io lo schiaccerò al pavimento”, oppure, “Matteo Fugiotti è un fifone, striscia come uno scarafaggio quando mi vede”.
Penso che l’unico modo per farla finita con quest’incubo sia quello di diventare grande e grosso. Come vi ho detto prima, però, la strategia di ingozzarmi di cibo fino a vomitare ha fallito miseramente.
Non posso continuare a scappare come un coniglio. Mi piacerebbe che una mattina mi svegliassi già un uomo adulto. Perché tutto questo agli adulti non succede, giusto? Prendiamo per esempio mio fratello maggiore Silvio. Lui non scappa mai da nessuno. Lo trova ridicolo. Difatti lui di mi prende in giro perché a me succede, di scappare.
Quando torno da scuola dopo avere scampato il pericolo Tony, Silvio si avvicina a me, si accorge che ansimo e che ho il viso pallido, e piuttosto che aiutarmi, mi deride. Incredibile! Avrei preferito un fratello più protettivo, pronto a difendermi, invece lui si diverte.
“Qualcuno ti ha tallonato e sei fuggito come un perdente, vero?” ipotizza, ghignando disgustato. “Quand’è che impari a combattere da vero uomo? Cacasotto!” conclude Silvio mostrandomi i muscoli possenti delle sue braccia, con una smorfia indignata stampata sul volto.
All’età di sei anni, assistetti a un litigio di Silvio. Si prendeva a mazzate con un ragazzo più massiccio di lui. Poi, a un tratto, il naso di mio fratello cominciò a sanguinare: l’altro gli aveva mollato una capocciata da brivido al setto nasale. Forse è proprio per colpa di questa cosa se tremo davanti alla violenza. Mi ha fatto rendere conto che fare a pugni è doloroso.
Quando Silvio fa un po’ troppo lo spaccone con me gli ricordo l’accaduto, per farlo tornare con i piedi per terra. Lui, offeso, solleva i pugni e si prepara a colpirmi. Finisce che gliele suono di santa ragione… al videogame, ovvio. Con i muscoli che ha Silvio non potrei mai sognarmi di sfiorarlo.
Io vorrei frequentare la palestra come fa lui. Mamma dice che a tredici anni sono troppo piccolo per sollevare pesi, potrei rimanere basso come sono e questo nemmeno a me sta bene.
Mamma ha rifiutato persino di iscrivermi a Karate o pugilato. Teme che mi faccia male. Secondo mamma sono un genio, e non devo sprecare il mio tempo in simili sciocchezze. Dice che da grande avrò successo perché riesco a fare cose straordinarie con cellulari e computer.
Adoro quando dice queste cose! Mi fa sentire davvero speciale!
Spesso, però, ho come la sensazione che sia rimasta male per non aver avuto una figlia femmina e cerchi di trattarmi come tale. È da quand’ero piccolo che mi ripete di essere un tipo sensibile, pacifico e gentile e fa di tutto per far si che mi comporti a quel modo. No che sia sbagliato, ma troppe volte mi ha negato regali come pistole, fionde o armi giocattolo. Per tutta la mia infanzia mi sono sentito soffocato. E adesso che sono un adolescente, lei insiste con quell’atteggiamento. Questo mi da fastidio. Perché continua a trattarmi così? Non sono una femminuccia!
Ultimamente abbiamo litigato tanto, troppo. Sembra che non ci sia più modo per andare d’accordo.
Alla fine, comunque la mamma ha deciso di iscrivermi in piscina. Speriamo che il nuoto mi faccia diventare alto e forte come papà. Mio padre è la copia esatta di Silvio, anzi, Silvio è la copia esatta di mio padre. Entrambi sono convinti che i veri uomini affrontano i problemi a muso duro. A ora di pranzo, per colpa loro, sono costretto a sorbirmi alla televisione ore e ore di spietato Wrestling, ed è in quel momento che inorridito immagino di finire sotto le mani del mio nemico. Vorrei essere come loro, ma non ci riesco.
Papà mi ha raccontato che una volta sono stato molto coraggioso. Io quel giorno lo ricordo solo a frammenti.
Ero al circo con i miei, avevo circa sette anni e tenevo in mano un laser rosso. Adoro le luci, e quel laser lo porto sempre con me da quando sono nato. Non so perché, ma non me ne distacco mai. La grande D dorata, stampata sull’impugnatura mi è sempre piaciuta un sacco.
Ma torniamo al racconto del circo. Sotto gli occhi vigili della mamma, scesi la gradinata e andai a comprare un batuffolo di zucchero filato. Di colpo, una tigre sfuggì al domatore e ringhiò in modo spaventoso davanti alla mia faccia. Tentò di azzannarmi. Un secondo dopo il felino crollò a terra con una ferita profonda inflitta da una lama affilatissima. Tra il pubblico c’era chi sosteneva che fossi stato io a compiere l’omicidio, con il laser, che si era trasformato improvvisamente in una spada luminosa.
Ma naturalmente nessuno crebbe a questa ipotesi assurda. La polizia non trovò nessun arma. Per giorni l’ispettore esaminò con estrema attenzione il mio oggettino preferito, senza riscontrare nulla di insolito. Io, come i miei genitori, sono convinto di essere stato salvato da qualcuno che poi ha avuto timore di rivelare la sua identità. Perché come vi ho detto, sono sempre stato un po’ codardo, e non credo affatto di aver trafitto una tigre.
In fondo è vero, sono più simile alla mamma. Tutti e due adoriamo pizza con funghi e patatine, ne ingeriamo tonnellate. A Meganvill, la grande città dove abito da quando sono nato, sfornano la migliore pizza del mondo. Le strade sono sempre affollate, negozi e locali gremiti di persone, anche di notte. Un bel luogo per un ragazzo della mia età.
Tuttavia sono giunto alla conclusione che è molto meglio essere adulti. Partiamo dal presupposto che un adulto non potrebbe mai aver paura di Tony. E non se la farebbe sotto a invitare una ragazza bellissima al ballo di fine anno.
Gli adulti si recano a lavoro con le auto, nessuno gli da ordini, possono rincasare tardi e, quando commettono degli errori, si assumono semplicemente la responsabilità e vanno avanti, senza che qualcuno li punisca o li obblighi a restare chiusi in camera.
Nessuno può comprendere cosa provo.
L’unico che sembra capirmi è Filo, il mio piccolo gatto. Mi osserva spesso con i suoi occhi penetranti ed è come se mi dicesse: “Ti prego, Matteo, restiamo in casa. Ho paura di tutti quei cagnacci che gironzolano la fuori”.
È un fifone come il padrone.
Eppure, stranezze della vita, nella mia famiglia qualcuno vorrebbe essere proprio come me e imitarmi in tutto. Parlo di Pierdavide, mio fratello minore. Ci divertiamo insieme e andiamo d’accordo. Però è troppo piccolo per aiutarmi ad affrontare i problemi che mi assillano e allora preferisco non confidarmi con lui. In realtà, quello di cui ho bisogno è un vero amico.
Ultimamente sono riuscito a fare amicizia con Lucas, un ragazzo più grande di me. Non so come l’ho convinto a frequentarmi, siamo così diversi! Il fatto è che mi piacerebbe essere deciso e fico come lui. Lo ammiro!
Chissà se Lucas darebbe una bella lezione a quel bullo di Tony, ponendo fine al mio incubo. Così finalmente andrei a scuola senza preoccupazioni e potrei avvicinarmi a Tania, indisturbato.
Tania. Quant’è carina! L’ho pensato dal primo momento che l’ho vista. È stato un incontro del tutto casuale e anche se sono trascorsi dieci mesi lo ricordo perfettamente…

Il racconto prosegue, cliccate sulle pagine qui sotto…

LA CASA DEI MISTERI di Letizia Pagani – Primo Livello Bambini. Corso di Scrittura Online

LA CASA DEI MISTERI di Letizia Pagani
Primo Livello Bambini. Corso di Scrittura Online

Tutti sanno che in quella casa nulla è normale.
E’una casa di montagna.
Si trova in un prato, lontano qualche kilometro dal paesino lì accanto, a duemila metri di quota sul Monte Bianco.
La casa, più che una semplice baita, è una villa.
Disabitata da più di trent’anni.
Si dice che fosse abitata da una famiglia, i Cutloff, che aveva due figli, un maschio e una femmina, ma un giorno, si racconta, che essi scomparvero. C’è chi sostiene che in giardino ci siano i cani maledetti, cani con gli occhi rossi, guardiani della dimora che si cibano di carne umana.
Invece alcuni sostengono che dentro, non ci sono i fantasmi, ma gli zombie.
Nessuno sa com’è però all’interno.
Si dice in giro, che, una notte, il vecchio Smilt, passasse davanti alla villa.
Diceva di aver visto uno dei cani maledetti e sentito delle urla raccapriccianti provenire dall’abitazione.
Ma nessuno sa se è vero ciò che dice, visto che è sempre ubriaco fradicio.

Continue reading

Le 10 regole di Moony Witcher…

Con l’uscita di Nina e il Numero Aureo eccovi alcune perle di saggezza da Moony, “dieci regole d’oro per scrivere un fantasy” che potete scaricare direttamente dal sito giunti.it.
Vi ricordo che Moony segue corsi “online” di scrittura a cui potete partecipare, secondo la vostra fascia d’età, compilando i moduli che trovate sul sito nelle singole pagine:

BAMBINI 11-13 anni | RAGAZZI 14-17 anni | ADULTI

Per qualsiasi dubbio potete contattare Moony attraverso il form che trovate in ogni pagina oppure alla mail sestaluna(at)moonywitcher.com (dove (at) stà per @).

IMPRONTE DI PARADISO di Giulia Acquistapace. Primo Livello – Corso Adulti

IMPRONTE DI PARADISO
di Giulia Acquistapace
Primo Livello – Corso Adulti

Il sole morente aveva concluso da pochi istanti l’ennesimo ciclo quotidiano tuffandosi nel mare sul versante della Grecia e le prime luci artificiali cominciavano a punteggiare la costa fino a Santa Maria di Leuca, disegnando una calda linea che delimitava ad occhio nudo nella notte il confine fra terra e mare.
Un uomo, accovacciato, dava gli ultimi ritocchi ai preparativi per la serata: due bicchieri, una bottiglia di champagne in fresca, due sedie a sdraio e tutto lo splendore della piscina solfurea di Santa Cesarea Terme erano un ottimo presupposto per il buon esito dei propri intenti. La Tramontana aveva spazzato per tutta la giornata il mare e il cielo, allontanando le nubi scure e la cappa d’afa che da giorni gravavano il respiro e facevano appiccicare addosso gli abiti leggeri di un fine Settembre che ancora sapeva d’estate. Il cellulare dell’uomo squillò: dall’ingresso qualcuno annunciava visite. L’uomo non attese, riattaccò la conversazione e riprese la posizione eretta. “Grazie al cielo”, pensò fra sé mentre si allontanava per ricevere l’ospite. Fece a due a due i gradini che lo riportavano a livello della strada e sfoderò prima dell’ultimo balzo il miglior sorriso, che andò tuttavia a spegnersi non appena scorse di spalle il venuto. “Ci mancava solo questa. Devo liberarmene al più presto o andrà tutto a monte prima ancora di cominciare, maledizione!”. Intanto il nuovo venuto si voltò senza entusiasmo al gesto del bagnino che indicava l’arrivo della persona richiesta. “Buonasera, dottore.”
“Buonasera a lei. A cosa devo il piacere della visita?”, mentre i tratti del volto tradivano il fastidio e l’impazienza.
“Ma prego, accomodatevi.” Il visitatore guardò dal sotto in su l’uomo che era venuto a cercare: “Spero di non aver interrotto nulla.” “Non vi preoccupate, mi preparavo alla mia consueta nuotata. A causa di impegni per oggi è stata posticipata e non saranno certo altri cinque minuti di attesa a rovinarla”, disse, sottolineando quei cinque minuti come a voler indicare il tempo massimo concesso per qualsiasi rimostranza (e ne era certo: se lo sgradito ospite si era preso al briga di venir fin lì, si sarebbe trattato sicuramente di una questione spinosa). Fece quindi strada facendo un cenno di congedo al bagnino che, sollevato, tirò giù con uno strattone la saracinesca del suo baracchino e si diresse con passo svelto verso casa.

*
CAPITOLO I

“In questo campo ci starebbe a meraviglia un gregge di pecore.” L’ispettore Anna De Rosa era così: se ne usciva all’improvviso con i commenti più improbabili senza una connessione logica col resto del dialogo. E suonavano ancora più assurdi se calati nel silenzio astioso di una deviazione tanto inattesa quanto inopportuna nella campagna salentina arsa dal sole. Il commissario sbuffò, guardando di sottecchi dallo specchietto retrovisore la collega abbandonata sul sedile posteriore dell’auto che, con sguardo svogliato, perlustrava il paesaggio senza prestare grande attenzione e soprattutto senza dare un sostanziale contributo nel raggiungere la meta. La cartina giaceva senza vita sulle gambe della donna, che teneva fisso il dito in un punto imprecisato della Puglia, mentre con l’altra mano si aggrappava alla maniglia del passeggero per evitare gli scossoni dati dalle buche della strada secondaria. “De Rosa, questo non è il presepio: un gregge qua, due pastori lì. A meno che non ci sia anche una stella cometa che ci conduca a destinazione!”. Nicola Renzi, al volante, sogghignò sotto i baffi. “E tu, Renzi, che ti vanti di essere del luogo! Invece di ridere: dove siamo? Non dirmi ancora che ci siamo persi! Se andiamo avanti così quel morto farà in tempo a diventar polvere prima del nostro arrivo!”. Renzi tornò serio: “Dotto’, non si preoccupasse! E’ qui, è qui! Siamo già a Porto Badisco: sa, qui mi ci portava sempre la mia nonna in bicicletta. Sapesse che mare! Anzi, se solo avessimo tempo, magari di ritorno…” “Renzi, guida e non fare programmi! E sbrigati, o persino il magistrato sarà lì prima di noi!”. “Comandi, commissario!”. Il silenzio tornò sull’auto che sfrecciava ora più decisa lungo la strada costiera che collegava Otranto a Santa Cesarea Terme, costeggiando ora la costa ora la campagna brulla, interrotta ora qui ora lì da qualche raggruppamento d’alberi selvaggi resistenti all’arsura. Le poche case di Porto Badisco passarono rapide al di là del finestrino e così il pezzo di discesa che ancora separava la Polizia dal luogo del ritrovamento. Arrivati in città, Renzi accostò parcheggiando con difficoltà l’auto al bordo del marciapiede della strada secondaria affollata che conduceva allo stabilimento termale. Il commissario saltò giù prima della fine della manovra, allontanandosi ma non abbastanza in fretta per non vedere gli ultimi dettagli dell’operazione: un colpo dietro ed uno davanti avevano concesso al pilota, con disappunto del superiore, di piazzarsi a puntino fra l’ambulanza e quella che ad occhio e croce poteva essere la macchina del medico legale: una punto anni Novanta da cui la dottoressa Malabarba, per motivi ignoti, non voleva separarsi.
“Commissario Melissano, prego per di qua.”, gli si fece incontro un uomo sulla cinquantina, verosimilmente il responsabile in seconda delle terme, dal momento che l’amministratore delegato, scesi alcuni scalini, giaceva su una sdraio al bordo della piscina sulfurea, evidentemente morto. “Dottor Riboni.”, fece Melissano. “Com’è successo? Avete qualche sospetto?” Il commissario già sapeva dalla recente telefonata intercorsa col medico legale che molti parlavano di suicidio. Riboni confermò quanto anticipato: “L’ha trovato qui il bagnino, il Vito (sottolineando con l’anteposizione dell’articolo al nome quanto le sue origini fossero lontane dal luogo del delitto). C’era una bottiglietta marrone con della polverina lì ai piedi della sdraio e lui era lì”, fece indicando con l’indice, “ proprio come lo vedete adesso. E poi c’erano i bicchieri, la bottiglia di champagne intatta… Sa, il Vito non l’ha voluto toccare! Che se poi la jella…” “Basta così”, fece Melissano, interrompendo quei commenti molto meno lombardi della dizione del nuovo facente funzioni. “Qualche problema? Qualcosa che secondo lei possa giustificare un gesto estremo come questo?” “Bha, non saprei. Lo stabilimento andava a gonfie vele. Anzi, Aldo aveva in mente qualcosa che proprio in questi giorni avrebbe fatto fare il salto di qualità alla struttura. Era un segreto, voleva parlarcene solo ad affare concluso, ma si vedeva che era al settimo cielo. Forse, ma non so… sa… il paese è piccolo… i pettegolezzi…”. Era evidente che Riboni voleva parlarne. “Vada avanti”, fece Melissano. “Bhe, sa… dicono che Aldo da qualche tempo si frequentasse con la Nina, la moglie del dottor De Bellis, il medico qui dello stabilimento. Lo sapevano in pochi, né! Fatto sta che il dottore aveva vinto un posto a Viterbo, in clinica, ed era intenzionato a lasciare Santa Cesarea con la moglie. Che so, magari non sopportava di essere lasciato… Sì perchè le donne fanno così, dicono dicono, ma quando si tratta poi di fare…” “Va bene, basta così.” Senza aspettare altro, il commissario andò verso il cadavere. “Fermò lì!” Melissano inchiodò. Scocciato, si voltò lentamente a vedere da dove la voce provenisse. Di lì a pochi metri c’era un omone appoggiato alla cinta di recinzione della piscina, imponente nella divisa arancione sormontata dalla chiara scritta: 118. “Prego?”, scocciato il commissario. “Sta’ a inquina’ la scena.” L’accento era romano, forse più di acquisizione che di nascita. Fumava un sigaro corto, depositando con cura la cenere nel piccolo contenitore ormai vuoto, attento a non disperdere tracce di tabacco bruciato. “La scena?” “L’ho delimitata, non vede?” Melissano si voltò: in effetti, di lì a poco il suolo circostante al cadavere era delimitato da nastro fluorescente. Gli oggetti entro il perimetro erano a loro volta etichettati con piccoli numeri e delimitati da stretti circoli di indelebile nero. “Bene, bene. Giochiamo al piccolo investigatore pure!” “Io non gioco. Ho delimitato la scena.” ribadì scocciato. Melissano si arrese. “Ho il piacere di parlare con il dottor…’” “Ulisse Lellis. Sono infermiere.” Non si preoccupò di stringere la mano che il commissario gli tendeva. Spense nella scatoletta definitivamente il sigaro. “Ho sentito tutte le stronzate che quello là – indicando con un cenno di sufficienza del capo Riboni – le ha raccontato. I bicchieri sono due. Uno è finito là, dietro la sedia a sdraio. E a me ‘sta storia non piace. E poi là c’è un’impronta. Ho isolata anche quella.” Il commissario rimase perplesso: non si fidava per usuale diffidenza, ma non si sentiva di bollare come stupidaggini le affermazioni di quell’infermiere che in fondo sembrava saperla lunga. E non solo a parole. Si limitò quindi a un cenno e procedette, aggirando la scena. Il medico legale era già lì. “Nella.” “Oronzo.” Si erano conosciuti ad una prima visita alla questura di Bari pochi mesi prima del trasferimento di Melissano dalla questura di Lodi. La dottoressa, bassa e rotonda, gli aveva subito ispirato simpatia. “Ti aspettavo. Sei invecchiato. Quanto ci hai messo?” Il commissario si passò la mano fra i capelli grigi che gli arrivavano alle spalle, abbassando gli occhi scuri sulla pancia un poco prominente al di sotto della camicia rigata azzurra e bianca. “Lasciamo perdere. Tu invece? Cosa mi dici?” “Ritengo improbabile il suicidio, se lo vuoi sapere. Troppo gonfio. Non ti so dire altro. Appena possibile, prenderò il tutto e lo porterò in laboratorio per l’analisi.” “Bene. E dell’impronta?”, aggiunse di malavoglia. “Uh, uh! Hai conosciuto il nostro Ulisse!”, fece Malabarba. Il commissariò fece un basso rumore gutturale in risposta, con una vaga cadenza interrogativa. “E’ un ottimo infermiere legale, lavora al 118 nella sede di Gallipoli. Abbiamo già lavorato insieme. E risolto alcuni casi grazie alla sua competenza. Non lo giudicare: lui è così. Ma ti potrà essere di aiuto, fidati. E’ in gamba. Comunque – dopo una breve pausa – non mi dice nulla l’impronta. Fra poco arriveranno i RIS, fagliela notare. Appena so qualcosa ti chiamo. Arrivederci, Oronzo!” “Arrivederci, Nella.” Si separarono, il medico legale verso la sua borsa e il commissario verso i suoi che nel frattempo l’avevano raggiunto. “De Rosa, con me.” Si allontanarono aggirando la piscina e si accomodarono per guardare in distanza la scena. Anna estrasse il block-notes. “Abbiamo un cadavere, Aldo Frontini, amministratore delegato dello stabilimento termale. Abbiamo due bicchieri e una confezione dal contenuto ignoto. Abbiamo un amante, Nina Cova, e un marito cornuto, tale medico del centro termale, dottor…” “Livio De Bellis, titolare di un posto a Viterbo, in partenza nei prossimi giorni.” “Brava! Vedo che hai seguito.” Anna si limitò a scuotere i capelli ricci raccolti un una corta coda di cavallo. Gli occhioni verdi guizzavano sulle parole annotate. “Abbiamo un probabile futuro amministratore delegato, Giacomo Riboni. Abbiamo un bagnino, Vito Russo, l’ultimo dei presenti a vedere la vittima viva e il primo a ritrovarlo cadavere. E’ lì, nell’angolo. Se poi vuole interrogarlo…” “Vedo che hai già provveduto. Che ti ha detto?” “Niente di più di quello che ho riportato ora. Era sconvolto e spaventato. Ed ha un alibi: stanotte ha dormito dalla fidanzata, tale Grazia.” “Va bene, ci preoccuperemo poi di verificare.” Nel frattempo giunsero i RIS e con loro giunge anche il magistrato. “Dottor Marangi.” “Dottor Melissano – si salutarono. Novità?” “Per ora nulla, ma stiamo indagando. A quanto pare ognuno dei coinvolti ha una propria versione dei fatti.” “Bene. Cioè, male. Smobilitiamo il prima possibile. L’aspetto fra due ore qui in comune nell’ufficio dei Vigili per il punto della situazione. E mi raccomando Melissano, discrezione. Discrezione!”, e si separarono.

Il racconto prosegue, cliccate sulle pagine qui sotto…